"Ripeto a me stessa di dover lottare per superare non solo i miei problemi, ma anche quelli che assillano l’intera società turca. La musica è un linguaggio potente, è la mia arma". Intervista a Gaye Su Akyol, musicista e "sirena di Istanbul" che ammalia e sfida il potere
(Originariamente pubblicato da Novosti )
Armature dorate, soprabiti con paillettes variopinte, costumi alati color argento. Un occhio guarda indietro, l’altro punta dritto al futuro. La voce seducente di una sirena decanta Istanbul, i suoi gabbiani che si baciano e i gatti che fanno l’amore. E proprio quando vi ammalia, la sirena si trasforma in una guerriera che sfida il potere, chiedendo ai politici se si sentano a loro agio nei palazzi, mentre i cittadini vivono nelle proprie case come se fossero in esilio. Questa è Gaye Su Akyol, cantautrice, pittrice e antropologa, la nuova regina del rock anatolico.
Nata a metà degli anni ’80 a Kadıköy, nella parte asiatica di Istanbul, dove tuttora vive, Gaye ha iniziato la sua carriera musicale collaborando con diverse band, tra cui Mai, Toz Ve Toz, Seni Görmem İmkansız. Da una decina di anni si esibisce da solista. È inutile provare a ingabbiare la sua espressione entro i ristretti confini dei generi musicali, trattandosi di una musicista che sperimenta continuamente e intreccia diverse esperienze sonore, dalla musica popolare turca alla psichedelia, dal grunge ai ritmi electro. Ripudia l’etichetta di world music, considerandola impregnata di connotazioni colonialiste. Seguendo il modello della cantautrice turca Selda Bağcan, prigioniera politica negli anni ’80, Gaye Su Akyol rifiuta l’asfissiante retorica della fama e le mistificazioni esotico-esoteriche.
“Scrivete di quelli che in Oriente muoiono senza medici”, cantava Bağcan nel 1976. Oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, sono i versi di Gaye Su Akyol a sfidare il regime. Versi che intrecciano pulsioni erotiche e vivacità queer, riflessioni sui comportamenti femminili (in)accettabili e osservazioni sulle città e sulle persone impoverite. Pur essendo stata più volte interrogata dalla polizia a causa della sua musica e delle critiche rivolte al presidente turco Erdoğan, Gaye continua a creare, cantare e ballare.
"Anadolu Ejderi" [Drago anatolico] è il suo quarto album. Nel corso degli anni lei ha sperimentato molto con i suoni, e sembra che non si preoccupi affatto dei confini tra i generi musicali, o perlomeno delle idee, comunemente accettate, su quei confini. Può dirci qualcosa sui suoi primi impulsi e influenze musicali subite? Cosa si porta ancora dentro?
Uno dei miei primi ricordi dell’infanzia è l’immagine di mia madre e mia nonna che cantano antiche melodie turche, risalenti al periodo ottomano, in cui riecheggiano tutte le culture che per migliaia di anni hanno convissuto in questa terra chiamata Anatolia. Vi si intrecciano diverse influenze, armene, greche, etc.
Per me questi ricordi rivestono grande importanza. Ho perso sia mia madre che mia nonna, ed è la musica a mantenere vivo il mio legame con loro. Ogni volta che mi sento sola, inizio a cantare una delle melodie che cantavamo insieme, melodie che mi legano non solo alla mia amata famiglia, ma anche ad una comunità più ampia, al nostro passato condiviso.
Poi crescendo ho scoperto la psichedelia e il rock anatolico, una scoperta che ha inevitabilmente allargato i miei orizzonti musicali. La psichedelia anatolica è una musica molto intensa, espressiva e stratificata, in cui il folk turco si intreccia al rock’n’roll. Ed è una musica che col tempo ha assunto forti connotazioni politiche. Ascoltavo anche i Doors, i 13th Floor Elevators e i Nirvana. Quest’ultima band aveva travolto la mia adolescenza. Ricordo ancora la prima volta che mio fratello mi aveva fatto ascoltare una canzone dei Nirvana. Avevo pensato: “E questo cos’è? Ne avevo tanto bisogno, senza nemmeno saperlo”. Tutte queste esperienze mi hanno plasmata, e continuano a plasmarmi.
La psichedelia turca degli anni ‘60 e ‘70, come lei ha appena sottolineato, aveva una forte dimensione politica, fatto che però viene spesso sminuito, se non addirittura del tutto ignorato, nell’attuale revival del rock anatolico. Perché oggi la musica politicamente impegnata risulta problematica?
Prendiamo l’esempio del reggae. È un genere musicale storicamente importante per i neri, per il loro desiderio di uguaglianza, per le loro aspirazioni rivoluzionarie, etc. Per me è problematico l’atteggiamento di chi oggi suona il reggae e afferma di “voler semplicemente far ballare la gente”. Così ci si lascia sfuggire la sostanza. Non mi fraintenda. Ballare è importante, può essere un atto davvero rivoluzionario. Però non si può sostenere che una musica che fa ballare sia completamente slegata dalla politica. Credo che dobbiamo cercare di comprendere i retroscena, quello che c’è dietro la musica.
Gli esponenti della psichedelia anatolica degli anni ‘60 e ‘70 erano molto impegnati politicamente. Venivano incarcerati per le loro canzoni, maltrattati, costretti ad emigrare all’estero. In Turchia per decenni i musicisti venivano sottoposti a torture terrificanti. Chi oggi suona la musica psichedelica dovrebbe saperlo. Molti musicisti hanno sofferto per fornirci espedienti artistici rivoluzionari.
Certo, la psichedelia anatolica contiene anche una dimensione gioiosa e permette di esprimere una creatività molto variegata. Non dobbiamo però fuggire dal suo significato e contesto politico. Lo tengo sempre a mente quando scrivo nuove canzoni per arricchire questo genere musicale. Ripeto a me stessa di dover lottare per superare non solo i miei problemi, ma anche quelli che assillano l’intera società turca. La musica è un linguaggio potente, è la mia arma. Un’arma che non uccide, capace però di diffondere un suono ribelle.
Quali sono oggi i principali problemi per lei e le persone che la circondano? Lei vive a Kadıköy, il quartiere meno convenzionale di Istanbul, dove però la vita è sempre più cara. Forse possiamo provare a tracciare un quadro dell’attuale situazione in Turchia partendo dalla sua città natale e dai cambiamenti che l’hanno attraversata negli ultimi decenni?
Sono nata a Kadıköy e l’anno prossimo saranno quarant’anni che vivo qui. Nel corso degli anni ho assistito a molti cambiamenti nel mio quartiere e nell’intera città di Istanbul. Sono avvenute grandi svolte, perlopiù negative. La politica ufficiale sta continuamente e deliberatamente cercando di cancellare tutti gli aspetti di una storia condivisa della città. Istanbul è una delle città più antiche del mondo. Per secoli è stata un crocevia di tante comunità diverse. La storia di queste comunità è stata cancellata in nome di una nuova storia nazionale dove i legami culturali e sociali sono costantemente sotto attacco.
Questa però è solo una dimensione del problema. Un altro aspetto, estremamente importante, è quello economico. La vita qui sta diventando sempre più difficile. Questo peggioramento delle condizioni di vita va di pari passo con il costante intensificarsi delle sfide politiche e sociali. Non credo che [in Turchia] le donne si sentano al sicuro, né tanto meno credo che le persone LGBTQ e i poveri provino un senso di sicurezza.
Ovviamente, non è un problema circoscritto alla Turchia, è una realtà sempre più diffusa in tutto il mondo. Francamente, non è facile riflettere su questi argomenti ed essere sereni. Quando ero più giovane, il futuro mi sembrava più luminoso, pieno di speranza. Non credo che questa percezione fosse legata esclusivamente alla mia giovinezza. Ora invece vedo il futuro come un groviglio dei periodi più bui della nostra storia. Quest’immagine però, anziché scoraggiarci, dovrebbe spingerci ad alzare la voce e ad organizzarci.
Se guardiamo al passato, ad esempio alla lotta per l’uguaglianza di genere, nulla è mai stato regalato alle donne. Tutti i diritti di cui oggi godiamo, li abbiamo conquistati col sangue. Dobbiamo continuare a impegnarci e ad essere solidali con chi condivide la nostra lotta e i nostri obiettivi. I malvagi sono molto compatti e ben organizzati. Noi invece non siamo ancora così uniti e capaci di mettere in atto azioni collettive. Nel mondo ci sono milioni e milioni di oppressi, ed è in questi numeri che sta la forza. Una forza tanto individuale quanto sociale.
Parlando di lotte e solidarietà, devo dire che oggi anno, in occasione della Giornata internazionale della donna, in diverse città croate si svolgono marce notturne. Il primo corteo fu organizzato nel 2016 ispirandosi proprio alla lotta e alle marce delle femministe turche…
È così bello sentirlo. Mi è venuta la pelle d’oca, sono davvero molto emozionata. Anch’io ogni anno cerco di organizzare i miei concerti e altri impegni in modo da poter partecipare alla marcia di Istanbul. Ogni anno le donne e le persone queer devono combattere solo per poter sfilare liberamente lungo İstiklâl Caddesi. Gli agenti di polizia, muniti di manganelli e lacrimogeni, ci accompagnano come se fossimo terroristi.
Ancora oggi è molto difficile chiedere uguaglianza e solidarietà. Il sistema non vuole che ci organizziamo, i potenti non vogliono che la loro zona di comfort venga travolta, proteggono il loro potere ad ogni costo. Le donne che osano sfuggire ai ruoli a cui sono state relegate vengono marginalizzate e definite streghe, esseri inferiori e indesiderati. Però noi siamo qui per cambiare la situazione e i potenti dovranno accettarlo.
Lei si ispira ampiamente alle generazioni precedenti sia per quanto riguarda la sua musica che le sue idee politiche. Eppure, il suo sguardo, anche quando è rivolto al passato, non è mai nostalgico. Anzi, la sua espressione è assai avveniristica, sembra essere focalizzata sull’azione, la sperimentazione, l’innovazione…
È proprio quello che sto cercando di fare. Mi fa piacere che si riesca a cogliere questo aspetto. Non amo le immersioni nostalgiche e romantiche nell’arte del passato. È importante conoscere e comprendere la storia, però è solo l’inizio. Il tempo scorre, quindi bisogna essere coraggiosi, autentici e pronti a rischiare, bisogna cercare nuovi modi di pensare e agire, bisogna anche sapersi emozionare per la possibilità di raccontare la propria storia. Altrimenti la produzione artistica diventa l’ennesima imitazione del passato, e per me l’essenza dell’arte è un’altra.
È triste vedere che molte nuove band continuano a suonare le solite vecchie canzoni. È molto facile riprodurre i suoni degli anni ’60 e ’70, così però si rischia di creare una musica artificiosa. Dobbiamo trovare un linguaggio adatto all’epoca in cui viviamo. Oggi ci sono talmente tanti problemi assurdi, tanti orrori in tutto il mondo, quindi le cose di cui possiamo parlare di certo non mancano. Allora, facciamolo! Cantiamo dei problemi attuali. Naturalmente, dobbiamo cantare anche di gioie, sogni, idee e fantasie che ci rendono vivi.
Ecco soffermiamoci sulla fantasia. I costumi, sempre molto elaborati e sontuosi, sono un aspetto importante delle sue esibizioni. Perché rivolge così tanta attenzione agli abiti di scena? Quali orizzonti cerca di esplorare attraverso i costumi?
Faccio musica di lavoro, però è un lavoro che mi permette di dare forma alle mie fantasie intime. Il palco è il mio universo. Per me non c’è nulla di più bello della possibilità di esprimermi liberamente, senza preoccuparmi di cosa ne penseranno o diranno gli altri. Sul palco mi trasformo in una supereroina. Mi piacerebbe che tutti si sentissero capaci di farlo, perché nessuno verrà a salvarci alla fine della giornata. Certo, la solidarietà e i legami sociali ci rendono più forti, però dobbiamo anche assumerci la responsabilità di noi stessi.
Attraverso i costumi cerco di creare la persona che vorrei essere nella vita reale. È una versione sublime del mio universo, una specie di figura retro-futuristica di un film di fantascienza. Da ragazzina ero affascinata da “Xena principessa guerriera”. Ricordo anche i costumi da pascià e sultano che in Turchia i ragazzi solitamente indossavano dopo la circoncisione, che per loro doveva essere una procedura molto traumatica. Mi chiedevo perché anch’io non potessi indossare quegli abiti.
Ci sono molte persone non binarie, persone che rifiutano di essere incasellate in categorie sessuali. Questo atteggiamento mi ha sempre affascinata. Mi piace molto Zeki Müren, un cantante queer turco degli anni ’50 e ’60. Per me sono importanti anche Grace Jones, David Bowie, e tante altre figure, note e meno note.
La persona che divento sul palco è una combinazione di tutte queste influenze: una persona ribelle e forte, però imperfetta – non mi interessa la perfezione – e quindi una persona autentica che non sfugge alla propria natura umana e cerca di mettere a confronto i propri problemi e quelli degli altri. C’è una grande forza in questa visione, così come c’è una grande bellezza nei dettagli scintillanti, nei colori, nelle paillettes. Nel permetterci di giocare con tutti i modi possibili di esistere in un mondo che ogni giorno cerca di annientarci.
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