La Turchia come ponte tra Oriente e Occidente o piuttosto come condotto digerente? Il romanzo Ancóra ci porta nel laboratorio di Caronte, nell’antro oscuro dove riposano i trafficanti. Una recensione
Una metafora molto in voga vuole la Turchia “ponte” fra mondi diversi, fra Oriente e Occidente, fra un qui e un lì. Il susseguirsi di tragiche notizie dalle sponde dell’Egeo, sembra quasi renderla, più che un ponte, un trampolino per un salto nel buio, per lanciarsi in mare nella speranza, purtroppo per molti disattesa, di toccare le sponde europee.
La Turchia è divenuta negli ultimi anni, soprattutto a seguito della guerra in Siria, uno dei principali gestori dei flussi migratori da Asia e Medioriente verso l’Europa. Tutto ciò rende Ancóra, la seconda uscita in Italia del fenomeno editoriale turco Hakan Günday, un romanzo di estrema attualità. Un libro di violenta attualità.
Anche Günday, parlando della Turchia, rispolvera la metafora del “ponte fra due mondi”, ma non per ribadirne l’anelito ottimista al collegamento fra culture, bensì per rovesciarla, trasformando quasi quel ponte in un condotto digerente: “Il nostro paese è un ponte antico, con un piede scalzo a Oriente e l’altro infilato in una scarpa a Occidente, da cui transita qualsiasi merce illegale. Per il nostro ventre passa ogni cosa. Specialmente gli uomini chiamati clandestini… E noi facciamo del nostro meglio… Li ingoiamo e, per non strozzarci, li mandiamo via. Là dove devono andare…”, (p.22).
Ancóra ci racconta la storia di Gâza, un bambino di nove anni, un mostro. Come in A con Zeta, Günday sceglie come protagonista un bambino, un’anima pura, circondata però dall’inferno. Gâza è figlio di Ahad, un trafficante di immigrati irregolari, uno che nel terrore e nelle speranze di chi scappa dalla guerra vede solo moneta. A nove anni Gâza entra nella “bottega di famiglia” e diventa il braccio destro del padre, quello che vende bottigliette d’acqua ai migranti che anelanti gridano “Daha, daha!”, l’unica parola che sanno di turco: “Ancóra!” Gâza diventa quello che scava buche con la vanga quando qualcosa va storto, quello che apre e chiude lucchetti, che violenta bambine, quello che, in un macabro reality-show della sofferenza, osserva su un monitor i comportamenti dei migranti chiusi in una cisterna mentre attendono, con la testa tra le gambe, di essere consegnati al prossimo aguzzino.
Siamo abituati a guardare alla tragedia della migrazione quasi sempre focalizzandoci sulle vittime. Ancóra invece ci porta nel laboratorio di Caronte, nell’antro oscuro dove riposano i trafficanti. Gâza è vittima e carnefice ad un tempo. Si destreggia con bastanti cinismo e spietatezza nella vita che suo padre ha disegnato per lui, finché un giorno…
La svolta nella vita del protagonista passa per un confronto terrificante e prolungato con il volto della morte: seppellito in una grotta di cadaveri Gâza compie la sua discesa agli inferi da cui risalire per intraprendere un complicato nostos, un viaggio di ritorno verso la purezza, verso l’innocenza, mescolandosi ai migranti e tornando là dove le loro storie hanno origine, dove dipartono i loro sentieri... C’è una voce dentro Gâza che indica la strada del ritorno, la voce interrotta di un bambino morto di caldo nella cisterna, in uno di quei giorni andati storti in cui a Gâza toccava scavar buche.
Hakan Günday, che con questo romanzo ha vinto il Prix Médicis 2015, ama condurre il lettore in universi di abiezione, di profondo abbrutimento, al grado zero dell’essere umano. Così era anche nel precedente, e sicuramente più riuscito, A con Zeta. Da quei pantani di buio, inizia a scavare spietatamente nell’animo umano per vedere se sia possibile trovare anche lì una luce, una via di fuga, una maglia della catena della degradazione che non tenga. Non è uno scrittore che blandisce il lettore; semmai preferisce l’aggressione, la destabilizzazione delle certezze, la costatazione impietosa della violenza del mondo e della società. Gâza, com’è stato notato da Domenico Quirico, è personaggio e non persona. È poco credibile, poco plausibile come essere umano effettivamente esistente. Un trafficante di nove anni… Eppure è umanissimo nel suo sentire, ed è lo strumento che consente all’autore di condurre, uno studio romanzesco sulla ferocia insita nella – nostra - società, nell’individuo e nel suo agire associato.
Con Ancóra, Günday si conferma scrittore estremamente interessante - anche se qui non sempre ispiratissimo. Una voce riconoscibile, capace di arrivare a un vasto pubblico che mette a dialogo “il ponte”, la Turchia, con l’abisso di vuoto che lo sostiene. E con noi.
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