La Turchia invita Mubarak ad ascoltare le richieste dei manifestanti. E intanto sui media locali a seguito di un sondaggio, ci si chiede se il "modello turco", laico e parlamentare, possa essere copiato nei paesi musulmani dell'area mediorientale
ll premier Tayyip Erdoğan, martedì scorso, con un discorso tenuto in parlamento ha rotto il silenzio di Ankara sulle proteste scoppiate in Egitto il 25 gennaio scorso. Nell’intervento, trasmesso in diretta dalla televisione Al Jazeera con traduzione simultanea in arabo, Erdoğan ha dedicato ampio spazio alla situazione egiziana, facendo riferimenti anche a quella tunisina. Si è rivolto direttamente al presidente Hosni Mubarak, invitandolo a prestare ascolto alla “voce del popolo” .
“Le popolazioni del Medioriente e le loro componenti giovani e dinamiche con fiducia nella democrazia e nei diritti umani, con una mentalità aperta e una visione liberale possono dare inizio ad un movimento nuovo di cultura e civiltà” ha detto Erdoğan, aggiungendo di non credere che “una democrazia possa generare caos” o “radicalismo” perché “ordine e stabilità possono essere ottenute solo nelle democrazie avanzate”. “Non bisogna assolutamente temere elezioni libere, giuste e democratiche, e nemmeno la volontà del popolo. Poiché la coscienza comune del popolo non può sbagliare”, ha commentato infine il premier.
Le parole di Erdoğan hanno soddisfatto l’opinione pubblica turca. Tuttavia, l’iniziale circospezione del governo sulle rivolte nate in queste ultime settimane nel Nord Africa e in Medioriente e la mancanza, fino a pochi giorni fa, di una dichiarazione apertamente a favore della “democrazia” sono state criticate dalla stampa con durezza.
Le ambiguità delle reazioni turche: Iran e Sudan
“La Turchia, che dalla Libia al Qatar aspira a diventare una potenza nella regione mediorientale, non ha alcun pensiero di ‘democrazia’ o di ‘cambiamento’” aveva scritto l’analista politica Aslı Altıntaşbaş sul quotidiano turco “Milliyet”, il 31 gennaio scorso. In effetti, fatta eccezione per la popolazione di Gaza, in difesa della quale il premier Erdoğan si è levato più volte contro Israele (accrescendo le simpatie del mondo arabo per la Turchia), sulle violazioni dei diritti umani in altri paesi musulmani Ankara era rimasta sempre in silenzio finora. È rimasta in silenzio nel 2009, durante la repressione della Rivoluzione Verde iraniana, ma anche negli incontri con il presidente sudanese Omar Al Bashir (sulla cui testa pende un mandato di cattura ordinato dalla Corte penale internazionale dell’Aja per i massacri del Darfur) che Erdoğan ha difeso affermando che “un musulmano non può compiere un genocidio”.
Gli osservatori fanno notare che l’obiettivo turco di diventare “una potenza regionale basata sulla pace e sulla prosperità” nel Medioriente era stato pianificato in considerazione di un stabilità garantita dai governi preesistenti. “Gli ultimi eventi invece, ribaltano la ‘visione’ del ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu sull’area. Il calcolo era stato fatto sulla base del mantenimento e dell’approfondimento di buoni rapporti con i regimi della regione. Ma non si era assolutamente tenuto conto dell’eventualità di una ribellione popolare di questo tipo”, scrive l’analista Semih İdiz, sempre su “Milliyet”.
“Nel suo discorso, Erdoğan ha dichiarato la propria posizione politica su quanto sta accadendo in Egitto”, aggiunge İdiz in questo suo commento pubblicato il 2 febbraio, “ma questa posizione dovrà essere sempre sostenuta e ricordata ai dittatori dell’area. Inoltre il premier deve capire che non si può stare contemporaneamente sia dalla parte degli oppressi che delle figure come Al Bashir senza cadere in una stridente contraddizione”.
Il modello Turchia
Ora alcuni analisti sostengono che la tradizione democratica, parlamentare e laica turca costituirebbe per la popolazione egiziana il principale modello cui ispirarsi nella costruzione di un nuovo ordinamento politico. Ma un recente sondaggio condotto dalla Fondazione turca per gli studi economici e sociali (TESEV) sulla percezione della Turchia in sette Paesi dell’area mediorientale (Egitto, Giordania, Libano, Palestina, Arabia Saudita, Siria, Iraq e Iran) mette in risalto anche altri elementi che incidono nella sua accettazione a “modello” per il Medioriente.
Per il 66% degli intervistati la Turchia rappresenta un modello di riferimento, e anche un’unione riuscita di Islam e democrazia. Questa percentuale è più alta e supera il 70% in Giordania, Libano, Palestina e Siria. Per l’Egitto e l’Iran il motivo principale per cui considerare la Turchia un modello è la sua identità musulmana, mentre per Giordania, Palestina, Arabia Saudita e Siria è la difesa dei diritti dei palestinesi/dei musulmani. Il fatto che abbia un governo democratico è il principale motivo di scelta in Libano, mentre in Iraq prevale la considerazione della sua “struttura politica laica”. La classifica generale vede però ai primi posti la motivazione della sua identità musulmana (15%), quella della sua economia (12%), del suo governo democratico (11%) e infine del suo atteggiamento protettivo verso i diritti dei palestinesi/musulmani (10%).
È interessante notare che all’interno della percentuale per il “no” ad una eventuale Turchia-modello, al vertice delle motivazioni si trova la sua “carenza” religiosa: per il 12% il “no” è dovuto alla sua struttura statale laica, per l’11% al fatto di non essere sufficientemente musulmana, per il 10% ai suoi rapporti con l’Occidente. L’8% ritiene infine che non siano necessari dei modelli.
Oltre la metà dei partecipanti al sondaggio (54%) sostiene l’adesione della Turchia all’Ue, un dato che però risulta in calo rispetto al 2009 (57%). È diminuita anche la percentuale delle persone che ritengono che il processo d’adesione della Turchia all’Ue influenzi positivamente il suo ruolo in Medioriente (dal 64% al 57%). Nonostante gli abbassamenti di percentuale, gli autori del sondaggio considerano questi numeri come dei dati complessivamente positivi, che però indicano in modo lampante come i Paesi mediorientali risentano, attraverso il contatto con la politica turca, della recente immobilità nei rapporti tra la Turchia e l’Unione europea.
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