Durante le elezioni appena concluse in Turchia i candidati sono ricorsi ad una retorica discriminante e aggressiva. Ne abbiamo parlato con Yasemin Korkmaz, coordinatrice della campagna di monitoraggio dei discorsi d’odio in Turchia presso la Fondazione Hrant Dink
Durante le ultime elezioni in Turchia, entrambi i candidati alla presidenza non hanno esitato a utilizzare una retorica discriminante e aggressiva. In particolare, soprattutto fra il primo e il secondo turno, categorie di persone che vivono ai margini della società come la comunità dei rifugiati siriani si sono ritrovate esposte al fuoco (verbale) incrociato dei due schieramenti: rimpatriare tutte le persone fuggite dalla guerra in Siria sembrava a un certo punto l’assoluta priorità per il paese. Similmente, durante i vari comizi elettorali, diverse figure politiche come l’attuale ministro degli Interni Süleyman Soylu non hanno esitato a tirare in ballo lo spauracchio dei diritti Lgbt+ come una minaccia incombente per l’integrità del paese.
Abbiamo parlato con Yasemin Korkmaz, coordinatrice della campagna di monitoraggio dei discorsi d’odio in Turchia presso la Fondazione Hrant Dink (con sede a Istanbul) per capire meglio l’entità e le conseguenze di questo fenomeno, che è parso essere molto pervasivo durante l’ultimo appuntamento elettorale nel paese. La fondazione si occupa infatti di redigere report e analisi sulla presenza di discorsi d’odio e discorsi discriminanti sui media e nel dibattito politico da più di un decennio, oltre che di portare avanti campagne per arginare il problema e aumentare la consapevolezza su queste tematiche nella società turca.
Come mai pensate sia necessario occuparsi del fenomeno del discorso d’odio?
La nostra associazione è stata fondata dopo l’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink, e il suo caso è strettamente legato alla diffusione e alla pratica dei discorsi d’odio. Prima della sua morte, la sua figura veniva regolarmente presa di mira dai canali di comunicazione turchi e come risultato finale di un tale accanimento c’è stato appunto un crimine d’odio. Ovviamente non tutti i discorsi d’odio sfociano in un crimine ma, dal nostro punto di vista, costituiscono un primo livello in cui si creano e si acuiscono le discriminazione interne alla società.
Perciò dal 2009 abbiamo deciso di monitorare la presenza di discorsi d’odio nel dibattito pubblico del nostro paese, analizzando in particolare sia i media locali che nazionali. Ci preoccupiamo di identificare le varie categorie del discorso d’odio ma soprattutto i gruppi che ne diventano di volta in volta i bersagli. Da una parte ci interessa porre l’attenzione sulla responsabilità dei giornalisti, che sono tenuti a essere consapevoli dei toni con cui si esprimono, dall’altra vogliamo far conoscere quanto più possibile la questione presso l’opinione pubblica. In questo senso, è molto importante l’aspetto quantitativo della nostra ricerca: molto spesso quello dei discorsi d’odio può apparire come un fenomeno vago e tutto sommato non così rilevante, ma se si viene messi di fronte alla sua pervasività in termini di dati oggettivi si è più propensi a rifletterci e a considerarlo come una questione da affrontare.
Cosa avete osservato durante l’ultima tornata elettorale?
Durante le elezioni e la campagna elettorale in Turchia, abbiamo notato come discorsi d’odio e di natura discriminatoria siano stati utilizzati da tutt’e due le parti politiche e hanno avuto come oggetto molto spesso la categoria dei rifugiati e delle persone Lgbt+. Il fatto positivo è che si è verificata una discrepanza in termini quantitativi fra la presenza di discorsi d’odio nelle dichiarazioni dei leader politici, da una parte, e negli articoli e nei report dei giornali, dall’altra: come accennavo, credo che si sia creata nel tempo una maggiore consapevolezza del problema da parte dei professionisti dei media e, pertanto, molto spesso si evita di veicolare nei resoconti giornalistici discorsi d’odio che provengono dalla classe politica, anche se solo in forma di citazione.
Ciò detto, analizzando invece il dibattito che si è sviluppato sui social media e nello specifico su Twitter, abbiamo notato alcune tendenze: il termine “alevita”, per il quale ci aspettavamo un’alta diffusione dal momento che uno dei due candidati aveva utilizzato le proprie origini alevite come rivendicazione elettorale, è stato molto spesso associato in maniera il più delle volte indistinguibile dal termine “armeno” e magari usato come un insulto; per la categoria delle persone migranti di origine soprattutto siriana o afghana, uno degli elementi interessanti è come nel discorso pubblico se ne parli ponendo l’attenzione esclusivamente alla componente maschile di quei gruppi: i “rifugiati”, i “migranti”, insomma, sono quasi sempre uomini che arrivano nel nostro paese e in un modo o nell’altro costituiscono una minaccia; infine un termine molto utilizzato come insulto, applicato sia alla categoria dei rifugiati che a quella delle persone Lgbt+, è “pervertito”: anche qui, in diversi discorsi d’odio, migranti e persone dall’orientamento sessuale e/o identità di genere non conformi vengono viste come una minaccia alla struttura tradizionale della famiglia o come un problema di natura morale per l’intero corpo sociale.
Si tratta di un problema che ha a che fare con la mentalità della classe politica?
Tutte le forze politiche, in un modo o nell’altro, hanno fatto uso di discorsi di natura discriminatoria. Si tratta davvero di una pratica, purtroppo, molto comune e se è vero che esistono determinate figure politiche che insistono più di altre su una tale strategia comunicativa, non credo che il problema sia semplicemente individuale. Sicuramente si tratta anche del riflesso di una questione più strutturale che riguarda l’intera società e per la quale, pertanto, è necessario un cambiamento complessivo.
Aggiungo anche che la diffusione dei discorsi d’odio o dei discorsi discriminatori è qualcosa che non si limita al periodo elettorale, ma rimane costante più o meno lungo tutto l’arco dell’anno. Questo è vero soprattutto per determinate categorie, come siriani, armeni, cristiani, ebrei che sono praticamente sempre oggetto di un linguaggio aggressivo nei media (l’intensità del quale è magari influenzata anche dai cambiamenti nelle relazioni internazionali del paese). La soluzione per noi continua dunque a essere rappresentata dalla necessità di lavorare sulla consapevolezza generale, imparare a riconoscere la discriminazione insita nell’uso di certi tipi di linguaggio e offrire strumenti per raggiungere questo obiettivo a un sempre maggiore numero di persone.
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