Analisti, esperti di questioni militari, diplomatici e politici di mezzo mondo da settimane stanno discutendo di PKK, operazioni militari e Nord Iraq. Ma come si vive questa fase nelle regioni sud-orientali della Turchia?
Hakkari è un nome in grado di togliere il sonno ad ogni giovane turco in attesa della chiamata alle armi. Dall'inizio degli anni '80, la cittadina incuneata tra il confine iraniano e quello iracheno, è uno dei punti più caldi del sud-est turco, dove più aspri sono stati gli scontri tra l'esercito ed il PKK. Erkan Çapraz è il giovane ed intraprendente giornalista che dirige ad Hakkari il sito internet Yuksekovahaber.com. Çapraz si fa portavoce dell'irritazione dei suoi concittadini per come la stampa nazionale sta descrivendo quello che accade nella regione: "I media nazionali stanno facendo una grande pressione psicologica sulla nostra popolazione... si presentano i petardi di una festa matrimoniale come rumori delle armi da fuoco oppure operazioni di routine dell'esercito come i preparativi di un'operazione oltre confine".
A qualche decina di chilometri da Hakkari c'è Şırnak, altro nome ricorrente nelle cronache di guerra. L'avvocato Elçi è il presidente della sezione locale dell'ordine degli avvocati. Tradizionalmente l'ordine rappresenta una delle realtà più combattive della società civile del sud-est turco.
Venerdì l'avvocato Elçi ha letto alla stampa un comunicato a nome delle associazioni della sua città. Ci racconta dell'irritazione dei suoi compaesani: "i mass media non riflettano la situazione reale, ormai i media turchi hanno perso credibilità presso la gente di qui". L'atteggiamento dei media finisce " per presentare le persone che abitano in questa regione come dei potenziali colpevoli", aggiunge Çapraz.
In tutta la regione le manifestazioni rabbiose che da giorni si susseguono nel paese sono seguite con particolare apprensione. "Le ultime manifestazioni mostrano che se si continuerà così la Turchia si troverà di fronte al pericolo più grande, quello di mettere in discussione mille anni di convivenza tra curdi e turchi", è il pensiero di Alta Tan, opinionista da Diyarbakir del quotidiano filogovernativo "Zaman".
Il presidente della Camera del lavoro e dell'industria cittadina, Mehmet Kaya, condivide queste preoccupazioni: "La gente qui è molto preoccupata dalle notizie che arrivano da ovest, dalle manifestazioni, ed anche dall'accondiscendenza manifestata in alcuni casi dalle autorità".
Irfan Aktan è un giornalista che collabora col settimanale "Postaexpress" ed autore di due libri sulla questione curda. E' nato ad Hakkari e da lì è appena tornato. Il suo è un allarme preoccupato: "Gli sviluppi delle ultime settimane rischiano seriamente di scavare un fossato tra curdi e turchi. Fino a qualche tempo la gente parlava di scontri tra esercito e PKK, adesso sempre di più si tende a presentare la situazione come uno scontro tra curdi e turchi".
Per il momento le prospettive di un'operazione militare hanno paralizzato il commercio e le attività economiche della regione. "Anche i dipendenti pubblici trasferiti qui, hanno paura e non vengono" lamenta Elci.
Sull'operazione militare Altan Tan ha le idee chiare: "L'obbiettivo reale dell'operazione militare non è il PKK. Del resto impiegare decine di migliaia di uomini e di mezzi per dare la caccia al PKK è come voler usare un missile per schiacciare una zanzara. Il vero obbiettivo è Barzani e lo stato curdo nel nord Iraq. E' un punto di vista molto diffuso qui da noi".
Dello stesso avviso è anche Çapraz: "la Turchia sa bene che non entrerà in Iraq solo per il PKK, ma se volesse attaccare il Nord Iraq si troverebbe a dover affrontare i peshmerga armati dagli americani e tutti gli intrighi della regione".
L'opzione militare però non è l'unica misura allo studio del governo turco per fare pressione sugli iracheni. Da giorni si discute anche di sanzioni economiche, di embargo.
La disastrata economia del Sud-Est turco, fondata prevalentemente sull'agricoltura, negli ultimi anni ha ricevuto linfa vitale dalla ripresa degli scambi con l'Iraq. Come ci spiega Mehmet Kaya "L'Iraq è un mercato importante per noi, là c'è bisogno di tutto e noi vendiamo tutto, dal cemento al marmo. E poi ci sono i trasporti, centinaia di camion varcano ogni giorno la frontiera. Nel Nord Iraq ci sono anche moltissime imprese di costruzioni turche. Inoltre 15.000 lavoratori dalla nostra regione sono emigrati là, dove trovano un salario decisamente migliore e dove possono parlare la stessa lingua. Ora per una regione economicamente povera come la nostra, l'Iraq è molto importante."
L'eventualità di un embargo economico avrebbe pesanti ricadute sull'est turco: "si parla di embargo senza tenere in considerazione gli effetti che potrebbe avere sulla regione, il rischio di rendere disoccupate un milione di persone", prosegue Kaya.
Operazioni militari, embargo economico. Eventualità che rischiano di far ripiombare la regione nel clima buio degli anni '90. Eppure da qualche anno qualcosa aveva cominciato a cambiare.
"Da cinque anni si respirava un clima positivo. Dal punto di vista economico è scesa l'inflazione, l'economia ha iniziato a crescere. L'assistenza sociale nella regione ha giocato un ruolo importante per sostenere larghe fasce della popolazione. Certo, non è sviluppo economico ma è comunque qualcosa. Il governo poi ha compiuto passi importanti verso la democratizzazione", ricorda Memet Kaya. Ed i risultati delle ultime elezioni politiche, che hanno visto l'affermazione dell'AKP anche qui e l'ingresso in parlamento dei deputati del DTP avevano fatto crescere le aspettative. "Dopo il 22 luglio la gente qui si aspettava molto dall'AKP, si aspettava passi importanti", ricorda Irfan.
Ed invece due nuovi elementi hanno fatto precipitare la situazione. La ripresa delle azioni da parte del PKK. "All'improvviso il PKK ha modificato il suo atteggiamento, è ripresa la violenza". E contemporaneamente i venti nazionalisti che hanno ricominciato a spirare nel resto del paese.
"La priorità del PKK non è quella politica, non è interessato a concedere una possibilità al DTP... dopo l'occupazione americana dell'Iraq l'intero scenario della regione si è rimesso in movimento. In questo quadro il PKK vede nuove opportunità per i curdi, per questo l'organizzazione ha deciso di riprendere le armi e di creare un'organizzazione gemella in Iran, il PJAK", spiega Aktan.
La società curda però è stanca di questo clima di violenza. Continua la ricerca di strade nuove per uscire dalla crisi. E continuano gli appelli.
"Nei giorni scorsi 90 associazioni della società civile di Diyarbakir hanno mandato un messaggio chiaro: al PKK hanno chiesto di abbandonare le armi senza condizioni e mettere fine alle operazioni armate. Nello stesso tempo hanno ricordato che il governo ha il compito di prevenire l'ondata di nazionalismo e di linciaggi che si diffonde nel paese. Il documento sottolinea anche come l'operazione militare in Iraq sia sbagliata e come rischi di portare gravi problemi al nostro paese", racconta Kaya. Dello stesso tono anche le parole dell'avvocato Elçi: " la gente di qui sa benissimo cosa significa la violenza, per 30 anni l'ha vissuta direttamente sulla propria pelle, non vogliono tornare a rivivere quei giorni. Desiderano che la questione curda sia risolta in modo moderno e democratico".
Un'azione politica di largo respiro che affronti globalmente la questione curda in Turchia. Alla fine parlando di Nord Iraq ed operazione militari si ritorna sempre allo stesso nodo.
PKK, diritti culturali, sviluppo economico delle regioni sud-orientali, terrorismo, rapporti con i curdi iracheni, "Sono aspetti diversi che devono essere tenuti distinti. C'è bisogno di un piano molto ampio per affrontare le diverse dimensioni del problema" - sostiene Altan Tan. "Il problema è che il governo non ha nessun piano d'insieme per risolvere la questione curda, non ha obbiettivi. Nel 2005 Erdoğan aveva ammesso l'esistenza della questione curda e promesso di risolverla. Poi ha fatto marcia indietro. Si muove verso la democratizzazione e poi ci ripensa... difficile capire cosa passa per la testa del primo ministro".
Eppure, come ha ricordato anche lo stesso Erdoğan qualche giorno fa, tra i deputati dell'AKP ce ne sono almeno 50 di origini curde. "A parte qualche eccezione però nessuno si sta impegnando sulla questione curda" - aggiunge ancora Tan - "ma l'AKP conta 340 parlamentari, ai quali si devono aggiungere quelli del DTP. Avrebbero la forza politica per fare qualcosa..."
In un clima di grande incertezza per il momento non resta che registrare una notizia positiva dell'ultima ora. La liberazione degli otto militari catturati dal PKK il 20 ottobre scorso. I militari sono stati consegnati ad Erbil, nel Nord Iraq, ad una delegazione che comprendeva anche tre deputati del Partito della Società Democratica (DPT).
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