Delle centinaia di migliaia di persone che sono fuggite dalla Russia dopo l'invasione dell'Ucraina una buona percentuale si è recata in Turchia. Al momento si tratta della seconda nazionalità presente sul territorio per numero di permessi di residenza a lungo e a breve termine. Abbiamo parlato con alcuni di loro
«Il bello della Turchia è che nessuno si cura di te». A. è da poco arrivato a Istanbul dalla Georgia, dopo essere scappato dal suo paese di nascita e residenza, la Russia, per via dello scoppio della guerra. Poche certezze, se non che non potrà farvi più ritorno a breve, e pochi soldi con sé. Al momento alloggia in una struttura per rifugiati nel quartiere di Yenikapı, dove è da tempo presente una folta comunità migrante di diverse nazionalità. «In Georgia, dove sono rimasto alcuni mesi, la gente ti faceva maggiormente sentire il suo giudizio. C’era una convinzione diffusa per cui, in quanto russo che si opponeva alle decisioni del Cremlino, saresti dovuto andare a combattere a fianco dell’Ucraina. Qua, invece, sei solo una della tante persone che è fuggita da qualche posto».
La catena degli eventi
In effetti, l’invasione dell’Ucraina non sembra essere fra le questioni più pressanti per la società turca. Com’è noto, Erdoğan è riuscito – grazie anche alla posizione di forza del paese nel contesto geopolitico – ad attestarsi su una sorta di equidistanza fra le due parti, accreditandosi come garante degli accordi sul grano. A differenza poi di altre nazioni post-sovietiche (come appunto la Georgia o i Baltici in Europa, ma in misura minore anche la regione centroasiatica) la mancanza di un passato condiviso con la Russia ha fatto sì che non riemergessero vecchi fantasmi o esplodessero questioni irrisolte. La guerra in Ucraina è, insomma, uno dei molti conflitti che si combattono nel mondo.
«Sarei ipocrita a dire che non sono contento del fatto di trovarmi in un contesto in cui non sperimento quel forte sentimento anti-russo che c’è altrove», conferma anche D., artista fuggito da Mosca durante i primi mesi dell’invasione. Ciò però non significa che nei confronti di quanto sta accadendo ci sia indifferenza, o che sia tutto semplice. «I primi tempi credevo di impazzire. È solo parlando e discutendo con altri amici e attivisti politici che sono riuscito ad acquisire una maggiore consapevolezza della guerra, a dargli un “senso” per quanto tragico. Intanto, però, ho conoscenze in Russia che si sono suicidate, o che non riescono a trovare una ragione della situazione in cui versa il nostro paese».
L’interrogativo è pressante e altamente contraddittorio: difficile capire cosa stia passando per la testa dei cittadini e delle cittadine russi da un anno a questa parte. Diversi sondaggi segnalano come il sostegno per Putin e per la sua decisione di invadere l’Ucraina rimanga forte, ma è possibile che molte prese di posizione vengano elaborate per conformismo e per timore di ripercussioni. D’altro canto, una fetta di società si è impegnata in prima persona contro la guerra, sia con manifestazioni non violente sia creando delle vere e proprie reti partigiane impegnate in sabotaggi e attività di disturbo delle operazioni militari. Infine, altri hanno espresso la propria opinione “coi piedi”, allontanandosi dal paese: secondo le stime , potrebbero essere fra le 500mila e il milione di persone dallo scoppio della guerra.
Una buona percentuale si è recata in Turchia, meta comunque già “popolare” prima dell’inizio dell’invasione: stando ai numeri del ministero dell’Interno al momento si tratta della seconda nazionalità presente sul territorio per numero di permessi di residenza a lungo termine (oltre 145mila) e a breve termine (oltre 118mila). Nella regione costiera di Antalya la percentuale di residenti con passaporto russo supera in diverse città il 20% della popolazione totale, e in alcuni casi si verifica anche una convivenza “virtuosa” con persone di provenienza ucraina o di altre repubbliche post-sovietiche.
Esperienze simili esistono pure a Istanbul. In una delle strade che dal corso di Istiklal discendono verso la moschea di Tophane nei pressi del Bosforo, c’è uno dei punti di ritrovo maggiormente frequentati dai giovani di recente immigrazione: Полторы комнаты (“Una stanza e mezzo”) è una libreria aperta e gestita da una persona russa e un’ucraina, che oltre a vendere volumi organizza eventi e conferenze di riflessione su quanto sta accadendo.
«Cerchiamo di costruire una comunità aperta, ma soprattutto come persone russe stiamo tentando di capire collettivamente il modo in cui la propaganda del nostro governo strumentalizza la storia e ci influenzi ancora, nonostante tutto», racconta un ragazzo che lavora nel locale, anch’egli emigrato.
Sugli scaffali, romanzi e traduzioni, letteratura per bambini e sezioni tematiche alcune delle quali dedicate al femminismo e alle questioni di genere. «In Russia molti di questi libri sarebbero ricoperti con l’etichetta di “agente straniero”». Lontani dal clamore dei campi di battaglia, in mezzo a un discorso sulla guerra che si fa sempre più polarizzato e talvolta schizofrenico, raccontarsi insieme e ritessere le fila degli eventi sembra essere un’esigenza largamente condivisa.
«A posteriori appare tutto molto chiaro», spiega P., fuggito da San Pietroburgo lo scorso settembre quando ha capito che il governo stava per chiamare una mobilitazione generale di reclutamento. «L’annessione della Crimea e le operazioni in Donbass nel 2014, la riforma costituzionale del 2020 che ha dato ulteriore potere a Putin, il tentativo di avvelenamento di Navalny… ora tutte queste “tappe” formano una catena logica perfettamente coerente. Ma la domanda di fondo rimane: come abbiamo fatto a non accorgercene? Anche nella cerchia di persone che, come me, erano politicamente attive, nessuno ha capito quello che stava succedendo».
Sconforto e decisioni
Accanto alla libreria Полторы комнаты un murales ritrae il poeta e scrittore russo Iosif Brodskij. Fu lui ad affermare – in un testo peraltro contenuto nella raccolta Fuga da Bisanzio – che «la vera storia della coscienza comincia con la prima bugia». Ribaltando un po’ il senso con cui il poeta ed esule intendeva tale sentenza nel suo racconto, viene da dire che per molti degli emigranti russi presenti a Istanbul (e altrove) questa frase rappresenta il compito che ciascuno si sta dando, sia nei confronti di se stesso che della propria comunità d’appartenenza.
In alcuni casi, ne nascono esperienze di dissenso preziose e aperte a un pubblico vasto, come la rivista web “Posle” che da più di un anno contribuisce a smontare le “menzogne” del Cremlino e a elaborare riflessioni sul significato che l’invasione dell’Ucraina riveste per il mondo (uno dei suoi animatori, il politologo e attivista socialista Ilya Budraitskis, si è trasferito per vari mesi in Turchia allo scoppio della guerra).
In altri, vuol dire fare i conti con lo sgretolamento di certezze passate, fra il personale e il politico, che gli ultimi eventi hanno rimesso in discussione.
«Durante la prima settimana dopo l’inizio dell’aggressione militare, io e altri compagni ci siamo riuniti nel mio appartamento nell’intenzione di costruire un movimento che si opponesse alla guerra e partecipasse alle proteste pacifiste», racconta P., il quale una decina di anni prima era già stato forzatamente arruolato nell’esercito. «Dopo qualche giorno, però, almeno venticinque di queste persone si erano già comprate un biglietto per fuggire all’estero. È stato qualcosa che mi ha lasciato sorpreso, e mi ha fatto sprofondare nello sconforto: che senso aveva avuto allora il mio attivismo politico fino a lì? Era mai esistita davvero la mia comunità? Poi, l’annuncio della mobilitazione di settembre ha messo fine a ogni mia illusione: non ero più un attivista politico o neanche un cittadino, solo un profugo, col mio carico di dubbi e dolore».
(continua)
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