Zone free tax dove i lavoratori non godono di protezione sindacale, deriva autoritaria, esperienze di resistenza che si sviluppano nei quartieri periferici della grandi città. Lo sviluppo turco in un'intervista al ricercatore Luca Manunza
Nel libro Geografie dell’informe (Ombre corte, 2016) il ricercatore Luca Manunza descrive la realtà socio-economica di tre importanti porti del Mediterraneo: Tangeri, Napoli e Istanbul. Sono contesti all’apparenza lontani, ma che presentano molti tratti in comune fra loro: logiche di delocalizzazione commerciale, cambiamenti urbani rapidi e spesso violenti, sviluppo di reti e relazioni informali. Abbiamo parlato con l’autore, convinti che queste dinamiche abbiano un peso fondamentale nell’attuale “deriva autoritaria” della Turchia.
Nel tuo libro descrivi come Istanbul sia diventata, negli ultimi dieci anni, uno dei principali “hub produttivi” del Mediterraneo. Quali sono le dinamiche che l’hanno portata ad assumere questo ruolo?
Quando Erdoğan prende il potere agli inizi degli anni 2000 si verifica una doppia spinta all’interno delle azioni di governo e nello sviluppo del paese in generale. L’ex-sindaco di Istanbul appartiene infatti a una linea politica a cavallo fra orientamento economico neoliberista, quindi che ha lo sguardo rivolto all’Occidente, e concezioni sociali invece radicate in una comunità che è quella islamica inizialmente moderata. Questa sorta di “piede in due scarpe” gli ha permesso di attirare negli anni – con strumenti a noi ben noti – una serie di ingenti capitali internazionali.
Quali sono gli strumenti messi in campo? Innanzitutto la creazione di numerose free tax zone, che si rivelano un elemento fondamentale e che, almeno fino a un paio di anni fa, sono state in costante espansione soprattutto attorno a Istanbul. Successivamente la “vendita” del proprio territorio, che è composto da una manodopera iperspecializzata, in particolar modo nel settore del manifatturiero e del terziario. Ecco dunque che Erdoğan inizia a vendere all’estero manodopera a basso costo, offrendo a chi viene a investire in Turchia tutta una serie di sgravi fiscali che in alcuni casi arrivano anche al 50% oppure assumono meccanismi simili a quelli in atto anche nell’area marocchina di Tangeri, per cui il governo turco cede interi comparti produttivi nuovi o dismessi da precedenti fabbriche e aziende locali a costo zero per 10-20 anni. Inoltre, Istanbul si “affaccia al mondo” come capitale europea della cultura, si inserisce in un discorso di candidatura alle Olimpiadi, diventa insomma uno dei maggiori poli mondiali del turismo. L’aeroporto Atatürk accoglie quasi cinque milioni di visitatori ogni mese, il Sabiha Gökçen ospita linee low-cost mentre un terzo aeroporto è in costruzione…
Quali ripercussioni ci sono sui lavoratori?
Sono stati dieci anni di iper-sviluppo. Tantissimi brand internazionali lavorano a Istanbul, non da ultimo quelli italiani. Basta fare un giro sul sito della Camera di Commercio per rendersi conto del numero e della tipologia di aziende che hanno sedi in Turchia.
Il punto è che nella repubblica di Erdoğan si può fare ciò che si vuole. Prendi il caso delle concerie di Solofra, in Campania (all’epoca fra le concerie più importanti d’Europa): una volta chiuse per un grosso scandalo ambientale, si sono trasferite quasi tutte proprio nell’area di Istanbul. Sappiamo quanto siano inquinanti queste aziende e quanto siano pericolose per la salute di chi ci lavora. Ogni tanto scoppiano dei casi anche in Turchia, che magari arrivano fino alla Corte europea, ma alla fine non ci sono mai conseguenze significative. Oppure prendi un marchio internazionale anche secondario come Philipp Pline: una polo di questo brand esce dalle fabbriche turche a un euro e venti, per poi essere rivenduta sul mercato di Dubai a ben 250 euro.
Nell’area vicina all’Atatürk Airport esistono interi quartieri popolati da giganteschi complessi di fabbriche di 10 piani, dove a ogni piano si svolge un diverso livello di produzione. Non troverai mai affissa all’esterno la targhetta di un brand specifico ma sono tanti brand che stanno dentro questi edifici e vi introducono linee di abbigliamento che vengono poi trasportate in tutto il mondo, sia attraverso le aerolinee sia attraverso il trasporto su gomma, che rimane assolutamente capillare. Ecco dunque che tutte le materie prime e il materiale grezzo che entra nelle free tax zone ne esce senza bisogno di alcuna lavorazione ulteriore, e soprattutto senza alcuna tassazione, pronto per essere trasportato sul mercato europeo, mediorientale e su quello cinese.
Dei veri e propri quartieri-fabbrica…
Si viene a creare un’impressionante dimensione di contiguità fra vita, lavoro e commercio. Intere popolazioni vengono delocalizzate dal centro della città verso l’esterno, in questi quartieri di edilizia popolare di proprietà dell’agenzia pubblica TOKI (siamo nei pressi delle famose torri che si vedono nella periferia di Istanbul). Qui, trovi gli abitanti che vivono letteralmente di fronte al proprio posto di lavoro. Ci sono dunque le case, i compound da 10 piani, i piccoli opifici affiancati da capannoni enormi (sorta di hangar dove vengono ammassate e impacchettate le merci) direttamente collegati alle reti autostradali con cui si trasporta il lavorato verso le piste di atterraggio e partenza dell’aeroporto di Atatürk. Sembra di tornare agli albori degli anni ‘30, una situazione simile a quelle descritte nei libri di Jack London…
C’è dunque la costruzione di un “mega-indotto”, iniziata attorno al 2006 ma che sta procedendo a ritmi altissimi, che va in parallelo allo svuotamento delle zone storiche, in barba ai grandi proclami e agli accordi con l’Unesco.
Quale spazio per i diritti? Come reagiscono i sindacati a una tale situazione?
La questione sindacale è veramente a un punto critico. Il sindacato di base del tessile DISK, il sindacato più importante della Turchia che è un’organizzazione “di lotta” affiliata al Partito Comunista, ha una base molto larga: durante il primo maggio a Istanbul riesce a portare in piazza un milione e mezzo di persone. Eppure non riesce a essere presente in tutte le fabbriche, anzi lo è solo in sparuti casi. Questo perché sotto il profilo lavorativo non ce la fa a spuntare quasi niente, non ha ormai alcun potere di concertazione. Da un lato non possono trattare con la fazione di governo, dall’altro non hanno interlocutori delle loro commesse, che sono internazionali.
A tal proposito è esemplare il caso dell’Ermenegildo Zegna, brand italiano presente da vent’anni in Turchia. Nel 2012 sono stati licenziati alcuni dipendenti che portavano avanti attività sindacali in un’azienda affiliata all’Ermenegildo Zegna a Tuzla, vicino a Istanbul. Ci sono state varie contestazioni, anche pesanti, finite però in un nulla di fatto, nessun incontro di concertazione con i dirigenti “ai piani alti”. Nelle fabbriche turche ci sono infatti dirigenti che presiedono all’organizzazione della linea di produzione ma che non hanno alcuna facoltà decisionale rispetto ai contratti con i lavoratori. Quindi i sindacati riescono in generale a mantenere uno zoccolo duro di militanti, ponendosi però come movimenti anti-governativi e alimentando manifestazioni di piazza. Ma di vittorie sindacali vere e proprie per la garanzia di diritti sul lavoro (contratti, riconoscimento di alcune malattie…) ce ne sono pochissime, quasi nessuna.
Esistono però esperienze interessanti di altra natura. La Kazova, per esempio, che è forse la prima e unica fabbrica autogestita in Turchia. Nel 2013, in seguito a pesanti licenziamenti, gli operai sono riusciti a requisire spazio e mezzi di produzione ai padroni dello stabilimento e ora realizzano prodotti di maglieria che vengono venduti attraverso una rete solidale. Un’esperienza piccola, che ha conosciuto anche forti diatribe al suo interno, ma di “vera resistenza”. Oppure il caso di un quartiere storico a maggioranza alevita, sempre nei pressi dell’aeroporto. Gli abitanti sono quasi tutti affiliati al gruppo DHKPC (partito marxista-leninista formatosi ai tempi del golpe degli anni ‘80) e si sono auto-organizzati all’interno della propria area, anche in termini di welfare di base, lavorando nel tessile per conto terzi (quindi oggi per un brand, domani per un altro e così via) e riuscendo a crearsi un certo potere di concertazione nei confronti dei propri committenti.
Sembrerebbe quasi che una vera opposizione oggi riesca darsi proprio su questo livello, neanche urbano ma – per così dire - “infra-urbano”…
L’ultimo vero colpo di stato turco, quello degli anni ‘80, derivava dall’enorme ondata migratoria che dai villaggi anatolici si riversava nelle grandi città. Si trattava di persone con una forte capacità di interpretazione politica e propensione alla lotta per i propri diritti che hanno creato una situazione di instabilità per cui si è deciso di ricorrere al golpe. Oggi, sono proprio queste zone che Erdoğan non riesce a controllare tanto bene e sono dunque proprio queste zone a costituire delle potenziali “sacche di resistenza” la cui spinta potrebbe riaffacciarsi nelle città e fungere da contrappeso al potere statuale.
Le riforme economiche liberiste di cui parlavamo in precedenza erano affiancate da significative concessioni in termini di libertà di organizzazione ed espressione. È in questo contesto che è cresciuto un movimento come quello di Gezi Park. Movimento in cui, tra l’altro, alcuni gruppi iniziavano a lavorare sul concetto di “beni comuni” con un atteggiamento che magari dall’esterno potrebbe sembrarci un po’ naïve ma che in realtà era caratterizzato da una decisione e fermezza notevoli. Ora tutto ciò non è più praticabile a un livello di grossi centri o dell’ambiente studentesco e accademico, che sperimentano gravi restrizioni.
Ma, come accennavo, questi discorsi vengono portati avanti in altre zone del paese più periferiche, che sfuggono al controllo centrale e si stanno riorganizzando. Penso alla zona anatolica del nord, dove attualmente la possibilità d’azione concesso ad associazioni di studenti, movimenti politici e piccole corporazioni è più alta che nel resto del paese. Oppure tutta l’area del Kurdistan: al di là dei centri principali che subiscono duri attacchi, c’è una miriade di villaggi che si sta gestendo in completa autonomia ormai da anni. Si tratta di piccolissime collettività, che però stanno diventando luoghi di sperimentazione molto interessanti in termini di democrazia dal basso, associazionismo, etc. C’è dunque un ritorno ai “territori”: sono vari gli attivisti che decidono di trasferirsi dalla città in queste zone o che magari fanno la spola, formandosi politicamente attraverso tali esperienze.
Ma soprattutto sono esperienze sviluppate da strati sociali di ceto medio-basso. Credo che in questo momento ciò garantisca alle lotte di resistenza una pragmaticità ed efficacia maggiori rispetto ai discorsi che magari possono essere formulati negli ambiti universitari o intellettuali, dove comunque articolare un pensiero dissidente oggi appare difficile se non impossibile.
Nel frattempo il governo impone leggi restrittive e si allontana sempre di più dall’Europa. Nel tuo libro sembri disegnare una parabola molto precisa in questo percorso, che ha nella crisi economica del 2001 il suo punto di partenza…
Tenendo presente che la storia è sempre un continuum, è però vero che nel 2001 si verificano una serie di salti e rotture rispetto al periodo precedente. Ci sono degli eventi che spingono i governi a elaborare ideologie ma soprattutto pratiche cui non eravamo abituati: nuove monete, una nuova “politica della paura”, diversi esercizi della violenza e del controllo (della guerra in generale), un differente approccio alle telecomunicazioni e alla privacy e, in parallelo, misure economiche di delocalizzazione. Il millennio si apre con l’impegno bellico in Afghanistan e con il riemergere della questione iraniana. In un tale contesto è inevitabile che la Turchia – prima quasi marginale – diventi un attore di primo piano: qualsiasi azione geopolitica deve in qualche modo passare dai cieli turchi. Ecco dunque che Erdoğan si confronta con queste politiche internazionali. Lo fa con spregiudicatezza e decisione, forte della sua posizione strategica, della ricchezza di risorse del suo territorio e nella consapevolezza di avere uno degli eserciti più potenti dell’area NATO.
Tuttavia, credo che si potrebbe provare a porre un altro “salto” circa dieci anni più tardi, nel 2010-11. Dopo aver preso – come dire – il meglio e il peggio di diversi paesi, dopo aver fatto proprie le politiche economiche occidentali nonché le tendenze internazionali su turismo, cultura e sviluppo urbano, la Turchia decide di cercare una sua autonomia e di “alzare la posta”. Spende i milioni ricevuti dall’UNESCO per il restauro e la conservazione e il giorno dopo svende interi quartieri cittadini, se ne frega dei richiami europei sui diritti, etc. E, soprattutto, stringe accordi commerciali e patti bilaterali con le potenze del nord (Russia) e si orienta sempre più verso est per lo sviluppo economico (una fetta molto consistente dell’economia turca in questo momento è la “ricostruzione” dei territori in conflitto, come Iran, Iraq e un pezzo della Siria).
È come se la sussunzione interna del discorso neoliberista fosse arrivata a un punto in cui non reggeva più e si sia dunque trasformata in qualcosa di più forte, in una vera e propria dittatura che presenta inedite e variegate sfaccettature. Da questo punto di vista non possiamo fare finta di niente, non dobbiamo trattare la Turchia come un paese alieno e lontano da noi. Il suo destino attuale interroga ogni giorno di più il percorso delle nostre democrazie occidentali.
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