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La prigione è senz’altro uno dei tòpoi letterari più importanti della letteratura turca del novecento. Indagato anche in "Non rivedrò più il mondo", inno all'immaginazione, alla forza della mente, al potere di trascendenza dai confini corporali

16/01/2019 -  Francesco Marilungo

Il filone della letteratura dal carcere in Turchia è sempre stato, purtroppo, uno dei più floridi. La prigione è senz’altro uno dei tòpoi letterari più importanti della letteratura turca del novecento; peraltro, simile destino riguarda la letteratura curda in Turchia. Sciaguratamente le carceri turche continuano a riempirsi di giornalisti, intellettuali, accademici, artisti, politici ed esponenti della società civile, accrescendo così il numero potenziale di opere di tale filone.

Per fortuna il mercato editoriale occidentale riesce a volte a far uscire quelle voci strette fra le sbarre in Anatolia e dar loro sponda ed eco. Così recentemente sono arrivati sul mercato italiano Arrestati di Can Dündar (Nutrimenti), ex-caporedattore di uno dei più importanti quotidiani di opposizione, il Cumhurriyet; Alba di Selahattin Demirtaş (Feltrinelli) co-leader del partito di sinistra radicale e filo-curdo HDP e ora arriva sugli scaffali questo bellissimo Non rivedrò più il mondo di Ahmet Altan (Solferino), uno dei più importanti scrittori turchi contemporanei (già più volte pubblicato in Italia) e fondatore del quotidiano Taraf. Libri molto diversi l’uno dall’altro, ma tutti testimoni del feroce clima repressivo, con tinte quasi kafkiane, che ha invaso la Turchia dopo il presunto-fallito-sventato (a seconda dei punti di vista) golpe militare dell’estate 2016.

In ogni caso, chiunque speri di trovare in Non rivedrò più il mondo, una testimonianza, una sintesi o un’opinione sul colpo di stato turco e sulle sue dinamiche, è sulla strada sbagliata. La ricostruzione dei fatti è solo un’esile guida narrativa, il contesto politico quasi invisibile sullo sfondo, i nomi dei protagonisti mai menzionati. Come se l’autore volesse dirci che quella dei colpi di stato e dell’incarceramento degli intellettuali è storia antica quanto il mondo, almeno in Turchia; inutile perder tempo dietro alla meschinità dei dettagli del caso, alle strampalate motivazioni alle quali di volta in volta il potere ricorre per silenziare le voci dissidenti e scomode. Ahmet Altan, da scrittore, da letterato, si focalizza sull’antidoto a tutto ciò: la parola. La letteratura.

Questo libro è un inno all’immaginazione, alla forza della mente, al potere di trascendenza dei confini corporali che la parola conferisce all’uomo. È una celebrazione della libertà del pensiero che trova respiro e slancio quanto più il corpo è mortificato e limitato. È un racconto elegante, intelligente e delicato, dello sforzo di Altan di non cedere alla disperazione e di trovare le risorse per resistere all’assurdità kafkiana di un potere che lo condanna all’ergastolo per “messaggi subliminali” a favore del golpe diffusi attraverso i social. È un tentativo di evasione riuscito. Ogni volta che un lettore raccoglie le parole stampate sulle pagine di questo libro Ahmet Altan è libero. Esce dal carcere e ci racconta del valore della libertà.


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