A Diyarbakır, bastione del movimento politico curdo, la campagna elettorale procede in un binario parallelo a quello del resto della Turchia. Il percorso per l’affermazione dei diritti del popolo curdo e di tutti gli “oppressi” di fronte allo stato turco resta la questione centrale. Nostro reportage
“Fino a poco tempo fa, nei viaggi in aereo, quando le hostess mi riconoscevano mi trattavano con una certa ostilità. L’altro giorno invece, per la prima volta, un pilota ha chiesto di scattare una foto con me”. Così racconta Selahattin Demirtaş, politico curdo e uno dei tre candidati che oggi 10 agosto concorrerono per la presidenza della repubblica in Turchia. I tempi cambiano. A trent’anni dall’inizio della lotta armata guidata da Abdullah Öcalan (leader in carcere del PKK, partito dei lavoratori del Kurdistan), la candidatura di Demirtaş ha portato l’impegno politico legale curdo ai suoi livelli più alti, attirando anche numerosi elettori turchi, grazie al suo linguaggio egalitario.
Binario parallelo
A Diyarbakır, bastione del movimento politico curdo, la campagna elettorale procede in un binario parallelo a quello del resto della Turchia. La percezione del crescente autoritarismo del governo guidato dal premier Tayyip Erdoğan, che spaventa tanto le zone occidentali del paese, resta in secondo piano. Qui il percorso per l’affermazione dei diritti del popolo curdo e di tutti gli “oppressi” di fronte allo stato turco è una questione centrale da lunga data. E anche il nocciolo del discorso presidenziale finisce sempre per essere ricondotto al processo di pace avviato ufficialmente all’inizio del 2013 tra Öcalan e Ankara.
I cittadini di Diyarbakır, 1,6 milioni di persone, sanno che il candidato dell’HDP (Partito democratico dei popoli) non si piazzerà primo e nemmeno secondo nella corsa elettorale. Ma per molti di loro si tratta di un traguardo comunque importante per il movimento politico curdo. “Sarà più che altro un referendum per sondare l’appoggio di cui gode”, dicono. Al comizio di venerdì scorso tenuto a Diyarbakır da Demirtaş erano presenti più di 30mila persone ad acclamarlo con bandierine gialle, rosse, verdi e viola impresse con il suo nome. A spiccare anche le bandiere del KCK (Unione delle popolazioni del Kurdistan) del PKK e del PYD (Partito di unione democratica, “sorella” del PKK presente in Siria), la scritta “ISIS il Kurdistan sarà la tua tomba”, una bandiera turca, esposta per un breve periodo, e uno striscione con su scritto: “Sono di Rize [città del Mar Nero di cui è originario il premier], il mio voto al candidato dei popoli Demirtaş”.
In città, come in buona parte del sudest anatolico è Demirtaş a essere favorito, i sondaggi lo indicano al 9% delle preferenze complessive del paese. Tuttavia è risaputo che milioni di curdi sparsi in Turchia – e la cui maggior parte si concentra a Istanbul – appoggiano Erdoğan. Anche per gli elettori della città ci sono solo due candidati da considerare per queste consultazioni, Demirtaş e Erdoğan i cui partiti nelle amministrative tenutesi quattro mesi fa hanno ottenuto, rispettivamente, il 55% e il 34% delle preferenze.
Voci di Diyarbakır
Ekmeleddin İhsanoğlu, candidato congiunto del Partito repubblicano (CHP) e del Movimento di azione nazionalista (MHP), non viene nemmeno considerato. “İhsanoğlu qui non ha alcuna possibilità di vincere. Anzi, se qualcuno per sbaglio dovesse mettere il timbro sotto il suo nome sarebbe da considerare un successo per lui”, scherza un negoziante che vende biancheria intima per donne. Voterà Erdoğan, come ha sempre fatto, perché gli piacciono i “leader forti”. Non lo preoccupa il fatto che il sistema presidenziale cui ambisce il premier possa renderlo ancora più forte. “Io sostengo il sistema presidenziale. Che senso ha avere un presidente che fa il notaio? Se lo hanno eletto i cittadini vuol dire che può agire direttamente in loro nome. Perché mettere in mezzo il parlamento, che è pure eletto dai cittadini, e allungare la trafila?”
E il processo di pace? “Noi lo sosteniamo come popolo e lo sostiene anche il governo e il movimento politico curdo. Chiunque non vorrà sostenere la pace ne pagherà le conseguenze, come in passato è accaduto ad altri politici. La popolazione lo punirà usando l’arma del voto”, conclude.
“Ekmekçioğulları, Emekçioğulları”, dice un netturbino comunale storpiando il nome di İhsanoğlu, “insomma avete capito di chi parlo, non lo voterei nemmeno se fosse l’unico candidato in lizza”. Vorrebbe esprimersi in dialetto kurmanji, ma continua in turco per venirmi incontro. È molto critico nei confronti di Erdoğan. “Questo paese è di tutti. Tutti vivono in regioni diverse. Ma siamo stufi di sentirci ripetere la parola ‘unico’. Non esiste unicità. C’è il curdo, il circasso, il laz, l’armeno e altri ancora. Bisogna abbandonare la lingua che dice sempre ‘un solo stato, un’unica patria’. Quella è la lingua del terrorismo”. La candidatura di Demirtaş lo rende contento. “Lui piace sia ai curdi che ai turchi, perché è propositivo e non usa un linguaggio discriminatorio”.
Processo di pace
La questione del processo di pace è centrale anche per lui. “È stato compiuto un passo, bene, ma bisogna continuarlo. Non vogliamo ricominciare tutto da capo. Se ci deve essere un miglioramento che lo facciano subito. Ci sono i prigionieri [del PKK]. Devono lasciarli liberi. Loro [il governo] hanno il potere di liberarli ma non lo fanno. Perché? Perché secondo me si tratta di un inganno. Noi, popolo curdo e turco e tutti gli oppressi vogliamo che il processo di pace non vada in fumo. Dipende da loro, dal primo ministro, dal presidente della Repubblica portarlo a compimento. Devono essere sinceri. Il processo fino ad ora lo abbiamo solo sentito nominare. Ma vorremmo poterlo toccare con mano ormai.”
Ha le idee molto chiare un gruppo di giovani universitari seduti nel tepore serale sul prato dell’immenso giardino di Sümer-Park, una ex fabbrica statale trasformata dall’amministrazione comunale in centro culturale e ricreativo. “Siamo appena stati al comizio e siamo tutti d’accordo per votare Demirtaş”, dice uno studente di giornalismo. “Lo sosteniamo perché rappresenta i giovani, i bambini, le donne e tutti gli strati sociali, mentre Erdoğan è al governo da 12 anni e il suo atteggiamento è rivolto a creare polarizzazioni nella società”.
“Quell’uomo non ha portato niente di buono al popolo curdo, fa tutto in funzione dei propri interessi”, aggiunge un altro studente di scienze politiche. Ma non è stato questo governo ad avviare il processo di pace con i curdi?, chiedo. “Quel processo non è opera di questo governo” risponde il primo, “è il leader del popolo curdo Öcalan ad averlo iniziato, mentre il PKK li ha costretti a iniziare le trattative con le proprie azioni. Non è qualcosa che ha fatto di propria iniziativa, si è spaventato per quello che sta succedendo in Medio Oriente. La mancanza di volontà sulla questione si vede anche dal linguaggio che Erdoğan usa nei comizi. Dice una cosa a Diyarbakır, ma quando va ad Edirne riprende a ribadire il concetto dell’unitarietà della lingua, della patria e della nazione. Noi non gli crediamo”.
A passeggio nello stesso parco, due donne sulla cinquantina, hanno opinioni simili sul processo di pace: “Purtroppo non è al livello che spereremmo di vedere” dice. “Erdoğan non fa altro che guadagnare tempo” aggiunge la seconda. “All’inizio c’era speranza. Forse dopo le elezioni si muoverà qualcosa. A volte i politici hanno delle agende che noi gente comune non conosciamo, anche se francamente non mi sembra probabile”, riprende la prima. “Non mi sembra probabile che un processo di pace possa essere portato a termine con persone come Erdoğan o İhsanoğlu. Può diventare possibile solo con figure come quella di Demirtaş che unisce e non separa”.
Chiedo se considerano pericoloso che Erdoğan diventi presidente concentrando tutto il potere nelle proprie mani. “Temiamo che venga imposto un unico tipo di persona cui tutti si devono uniformare. Per noi è inconcepibile. Per quanto riguarda noi donne sembra quasi che siano infastiditi quando indossiamo t-shirt o gonne corte”. “Ognuno di noi è diverso”, aggiunge, “portare il velo o meno deve essere a discrezione di ciascuno”. Annuisce anche la compagna, velata, che aggiunge: “Devono essere tutti liberi”.
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