La forza e i limiti delle proteste di piazza. Ed una Turchia che dalla vicenda del Parco Gezi deve imparare a non sperperare le occasioni di democrazia che ha a disposizione. Un commento
(Articolo pubblicato originariamente sul quotidiano Today's Zaman il 2 giugno 2013)
C'era il sapore della vittoria quando i dimostranti di Istanbul, il primo giugno, hanno riguadagnato Piazza Taksim, il cuore della città. Le proteste erano iniziate qualche giorno prima quando un piccolo gruppo di attivisti aveva bloccato le ruspe pronte a sradicare gli alberi del Parco Gezi, proprio dietro la piazza centrale di Taksim, il primo passo per la costruzione di un grande edificio al posto della zona verde.
I manifestanti hanno organizzato un sit-in pacifico contro il quale la polizia è intervenuta più volte con un uso eccessivo della forza. Poi, il 31 maggio, dopo che la polizia aveva transennato il parco, la protesta si è riversata nelle strade di Taksim, dove per tutto il giorno la polizia ha lanciato lacrimogeni contro la gente che si assemblava nella piazza centrale, lungo la principale arteria pedonale di Taksim, İstiklal Avenue o nelle strade vicine.
Infine, nel pomeriggio del primo giugno, sono scesi in piazza in migliaia per protestare contro l'atteggiamento della polizia e quest'ultima si è ritirata.
I cittadini di Istanbul hanno dimostrato di essere in grado di reclamare il loro spazio pubblico. Ma cos'altro hanno dimostrato questi eventi della vita politica e della democrazia in Turchia?
Chiaramente, non si è trattato di alcuna “Primavera araba” o “Rivolta di piazza Tahir”, come troppo in fretta è stato affermato da alcuni sui social media, nei primi sovreccitati momenti. Come ha subito ricordato il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, la Turchia è una democrazia e chiunque abbia problemi con la politica espressa dal governo può scegliere una via diversa alle elezioni.
Ciononostante questi eventi mostrano l'esistenza di un forte senso di frustrazione nei confronti della situazione politica nel paese. Molte delle persone che sono scese per strada hanno la sensazione che la loro voce non venga più ascoltata.
Nelle ultime elezioni, tenutesi nel giugno 2011, quasi il 50% delle preferenze sono andate al Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP), il 26% al Partito repubblicano del popolo (CHP) e il 5,5% al Partito di Azione nazionalista (MHP). Da allora l'AKP, e in particolar modo il primo ministro, hanno in modo incrementale fatto pesare la propria posizione di maggioranza, di contro l'opposizione è stata incapace di guadagnare spazio.
Nel frattempo, i media hanno perso gran parte della loro voce. Giornalisti sono stati licenziati o coinvolti in casi di diffamazione per il loro atteggiamento critico o per i loro articoli di giornalismo investigativo. Secondo il Comitato per la difesa dei giornalisti (CPJ) quasi 50 giornalisti sarebbero attualmente dietro le sbarre. Se vi è un po' di coraggioso dibattito sulla carta stampata e sui social media, dove alcuni commentatori hanno migliaia di follower, la televisione turca sembra invece, a volte, quasi sovietica.
Nel fine settimana, mentre gli scontri stavano proseguendo nel centro di Istanbul e in altre città, la maggior parte dei principali canali televisivi mandavano in onda programmi culturali e di intrattenimento. I turchi o si sintonizzavano su un canale pressoché sconosciuto, “Halk TV” (TV della gente) oppure si rivolgevano ai social media. Mentre la CNN International andava in onda con dirette da Piazza Taksim, la sera del primo giugno, la CNN Turchia faceva vedere delfini e pinguini.
Da notare che questo è un momento chiave della politica turca, i legislatori stanno riscrivendo la costituzione. Non dovrebbe forse essere la prospettiva dell'adozione di una nuova costituzione a promuovere il dibattito e la partecipazione? Ma se nel 2012, si erano tenuti alcuni incontri pubblici sul tema, da allora il dibattito sulla nuova carta si è svolto perlopiù dietro le porte chiuse della relativa commissione parlamentare.
Anche in questo caso i media non hanno aiutato. Le notizie in merito sono state quasi sempre negative: la commissione non riesce a trovare l'accordo; alla commissione sono stati dati altri tre mesi; l'AKP sta per riunire e proporre un proprio testo. Sino ad ora la grande maggioranza dei cittadini turchi non ha sentito alcun senso di responsabilità e partecipazione nel processo.
Gli eventi dei giorni scorsi possono cambiare le cose.
Le dimostrazioni, partite per difendere un parco, si sono presto trasformate in aperta contestazione al primo ministro. La sua linea dura e intransigente dimostrata la mattina del primo giugno, e la sua decisione di continuare con i progetti di eliminazione del Parco Gezi, hanno contribuito a spingere in strada molti cittadini di mezz'età di Istanbul che si stavano ancora chiedendo se erano stati sufficientemente “attivisti” nell'affrontare i lacrimogeni della polizia. Nei successivi cortei di massa uno dei principali slogan è stato ““Erdoğan, dimettiti”.
Il primo ministro è ben lontano dal lasciare il suo posto, e probabilmente ha ancora il sostegno del 50% degli elettori del paese. Vi sono voci secondo le quali le riforme costituzionali possano essere utilizzate dall'AKP per trasformare il paese in un sistema presidenziale, con Erdoğan che andrebbe ad assumere il nuovo - e potenziato - ruolo di presidente alle elezioni del 2014. Dato un mandato di 5 anni, se eletto due volte, Erdoğan potrebbe restare alla guida della Turchia per un altro decennio, sino al 2023, il centesimo anniversario dalla fondazione del paese.
Le proteste di Istanbul hanno dimostrato di cosa sono in grado i cittadini se si uniscono, attraversando linee di divisione religiose, economiche e ideologiche. Ma mostrano anche tutti i limiti delle azioni per strada in una democrazia che si basa sullo stato di diritto.
Le prossime battaglie dovrebbero infatti avvenire in parlamento e alle elezioni, ed il 2014 in questo senso - con le elezioni amministrative e presidenziali ed un possibile referendum sulla nuova carta costituzionale - potrebbe fornire ampie possibilità. Per per non dissipare tale opportunità i media, i partiti politici e le élites di governo devono però iniziare a prendere sul serio i loro ruoli democratici. E' tempo di reclamare uno spazio nella solita - ma essenziale – politica.
*Sabine Freizer è stata a lungo responsabile del Programma Europa dell'International Crisis Group .
Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell'Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l'Europa all'Europa.
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