Per legittimare i propri piani politici nei confronti dell’Ucraina moderna, il presidente russo Vladimir Putin ha più volte richiamato la Rus’ di Kyiv, il principato altomedievale degli Slavi orientali sviluppatosi tra IX e XIII secolo. Un approfondimento
Il famoso articolo di Putin “Sull’unità storica di russi e ucraini”, nel revisionare la relazione millenaria tra le due comunità, prende inizio proprio dal 988, anno in cui il Gran Principe di Kyiv Volodymyr (in russo, Vladimir) converte il suo popolo pagano al cristianesimo di rito bizantino.
Il battesimo ortodosso di Volodymyr nelle acque del Dnipro, vicino Kherson, era una decisione strategica presa dal sovrano della Rus’, che per vari motivi scartò l’ebraismo e l’islam, avvicinandosi invece a Costantinopoli.
Nella visione di Putin, che è poi quella della storiografia russa, fu invece una “scelta civilizzante”: essa sancì la creazione di “uno spazio spirituale comune” irreversibile, così come la stessa traiettoria storica dei tre paesi. I popoli dell’odierna Ucraina, Russia e Bielorussia, si sarebbero divisi, secondo Putin, solo in conseguenza dei propri errori e delle influenze esterne deliberatamente volte a distruggere questa unità. Sia la Russia (“Kyiv città madre di tutte le Russie”) che, ovviamente, l’Ucraina, proclamano Kyiv come culla della propria cultura.
La visione di Putin ha ovvie radici nell’epoca imperiale. Le terre dell’Ucraina contemporanea non erano mai state soggette al dominio russo, intendendo come predecessore storico dell’Impero il Granducato di Mosca, almeno fino al Trattato di Perejeslav del 1654, con il quale i cosacchi ucraini chiesero protezione allo zar Alessio in funzione anti-polacca.
L’etnogenesi dei tre popoli slavi orientali era passata attraverso diversi contesti e contaminazioni in seguito alla caduta della Rus’: i territori russi furono soggetti al giogo tataro dell’Orda d’Oro, mentre quelli ucraini e bielorussi vennero gradualmente incorporati nel Granducato di Lituania e poi nella Rzeczpospolita polacco-lituana.
Eppure, durante l’ondata di colonizzazione iniziata da Caterina II esse venivano presentate come territorio storico della Russia. Gli stessi etnonimi tradivano la volontà assimilatrice della dinastia Romanov nei confronti di ucraini (definiti malorossiiani, piccoli russi, a nord e novorossiiani, nuovi russi, nell’Ucraina meridionale assimilata per ultima nei domini imperiali) e bielorussi (bielarusy, russi bianchi) alla categoria “generale” di grandi russi.
Già nel 1547, quando Moscovia divenne uno Zarato, Ivan il Terribile si era proclamato “zar di tutte le Rus’”. È da qui che nacque una manipolazione linguistica che contribuì a legittimare la narrazione imperiale. Dopo la caduta della Rus’ di Kyiv, l’area abitata dalle popolazioni dell’attuale Ucraina centrale veniva comunemente definita come Piccola Rus’, mentre quelle dell’attuale Bielorussia come Rus’ Bianca. Dal termine Rus’ deriva Rutenia, e ruteni verranno chiamati gli ucraini e bielorussi fino al XIX secolo. In greco Rus’ si leggeva invece Rusia, e il Granducato di Mosca adottò questo termine per reclamare l’eredità sul regno di Kyiv; la delegittimazione successiva delle popolazioni rutene ucraine e bielorusse, come sub-etnie dei grandi russi, ne fu dunque una conseguenza.
La storiografia russa pone un forte accento sul ruolo autoctono slavo, in un’ottica panslavista funzionale a “statalizzare” il mito di Kyiv come culla identitaria di un unico popolo. Tuttavia, già la più antica fonte sulla Rus’, la Cronaca degli anni passati scritta dal monaco Nestore di Kyiv intorno al 1116, presenta un quadro di alta frammentazione delle popolazioni slave. Ciò favorì l’insediamento di tribù vichinghe, chiamate dai locali Rus’ (“gli uomini che remano”), la cui élite dominò i vari principati dell’area, pur lasciandosi velocemente slavizzare.
I principi Rjurikidi e l’aristocrazia boiarda fecero fiorire il principato e la capitale Kyiv fino alla seconda metà del XI secolo. Dopo la morte di Jaroslav il Saggio, cruente guerre di successione e le minacce delle popolazioni nomade turcofone dell’Ucraina meridionale portarono a un’epoca di instabilità.
Prima del crollo ufficiale della Rus’ nel 1240 – quando Kyiv fu saccheggiata dai mongoli – altri principati aumentarono la propria autonomia e rivendicarono i privilegi di Kyiv. Oltre al principato di Novgorod, si sviluppò quello di Vladimir-Sundzal intorno all’odierna Mosca, quest’ultima nominata per la prima volta solamente nel 1147. In quegli anni, il principe di Vladimir Andrej Bogoljubskij sfruttò la debolezza di Kyiv per invertire il rapporto tra centro e periferia. Gradualmente la dinastia Rjurikide si spostò nell’area della Russia centrale, e nel 1299 la sede della metropolia si spostò da Kyiv a Vladimir, mentre dal 1325 il centro del potere ortodosso divenne Mosca – qui la religione diventò presto uno strumento di soft power a disposizione dei sovrani russi.
Allo stesso tempo, l’apertura di due Metropolie, una in Ucraina e una in Bielorussia, segnò una rivalità politica fra ruteni e moscoviti per la supremazia ortodossa della Rus’ durante il XIX secolo, con il patriarcato di Costantinopoli che sostenne i secondi al fine di non decentralizzare l’autorità religiosa. Al crollo della stessa Costantinopoli nel 1453, fu però Mosca ad averla vinta, autoproclamandosi Terza Roma.
Secondo la slavista Jane Burbank, in un’intervista a Le Monde, il periodo successivo alla caduta della Rus’ è caratterizzato dalla continuazione della linea dinastica a Mosca fino al Seicento, mentre il territorio dei principati di Kyiv e Galizia rimase legato all’ovest, sotto una dominazione lituana più benevola rispetto all’autoritarismo sviluppatosi in Russia.
Il dibattito intorno all’eredità storica della Rus’ si intensificò durante l’Ottocento, secolo della rinascita delle grandi narrazioni nazionali. Dove la storiografia imperiale russa sottolineava l’unità, quando non la subalternità del popolo ucraino piccolo russo a quello grande russo, il pater historiae ucraino Mikhaylo Hrushevskij sostenne che l’erede della Rus’ di Kyiv era il principato di Galizia e non quello di Vladimir, focalizzandosi sulla continuità delle popolazioni piuttosto che della dinastia Rjurikide.
Nella storiografia ucraina populista, di cui Hrushevskij era maggior esponente e fonte canonizzata in quella moderna post-sovietica, forte enfasi si pone sulla circostanza per cui, mentre Kyiv era una delle più grandi città europee, Mosca non era nemmeno nata e fu fino a metà del XIII secolo un insignificante villaggio, nelle cui foreste si formarono, i russi, un popolo dunque separato dagli ucraini e unione di popolazioni slave e ugro-finniche.
Questa narrazione permise di dare nuovo fermento al sentimento nazionale ucraino, fiorente nell’Impero austriaco e represso in quello russo, diventando uno dei miti fondativi della statualità ucraina. Si trattava di invertire il complesso di inferiorità degli ucraini assimilati dall’Impero zarista; nel proclamare l’eredità di Kyiv, gli ucraini potevano ora vantarsi di una cultura più antica di quella russa.
Durante la prima breve esperienza di indipendenza dell’Ucraina nel 1918, il tridente simbolo di Volodymyr il Grande divenne lo stemma ufficiale adottato ancora oggi dagli ucraini, il tryzub. Dopo l’indipendenza del 1991, la valuta ucraina venne chiamata hryvnia, dal nome della moneta della Rus’, e sulle banconote venivano raffigurati i principali knyaz’ del principato.
La linea storiografica di Hrushevskij venne cancellata durante l’epoca sovietica, e ripresa dopo l’indipendenza: già prima del 2014, le lezioni di storia nelle scuole ucraine e russe riguardo la Rus’ partivano da presupposti, e giungevano a conclusioni, nettamente diverse, ugualmente strumentalizzate dalla politica.
Secondo lo storico ucraino Mykola Ryabchuk, l’eredità russa del principato di Kyiv è uno dei miti storici più acriticamente accettati – nelle accademie, nei mass media e nel discorso comune – come verità indiscussa per secoli: internamente, ha influenzato l’identità ucraina, internazionalmente, la percezione occidentale dei rapporti fra i due paesi. Combatterlo è dunque una questione esistenziale per l’identità ucraina, ma i rischi di rimanere intrappolati in una trappola medievistica sono dietro l’angolo.
Le dispute politiche intorno a questioni medievali o addirittura precedenti non sono una novità introdotta dalle relazioni russo-ucraine. Soprattutto nei Balcani, si pensi al Kosovo e alla Macedonia, la lotta per l’eredità storica di culture e stati antichi è ancora oggi centro del dibattito fra etnie diverse. Quasi sempre, da un lato vi è una narrazione dominante, e dall’altro un’identità fragile in cerca disperata di una prova della propria legittimità in un determinato periodo storico.
Le dichiarazioni ufficiali dei vari presidenti ucraini e dello stesso Zelensky, di Putin, e in misura minore di Lukashenko, diventano sempre più inconciliabili il 28 luglio di ogni anno, giorno delle celebrazioni ufficiali del battesimo della Rus’. Allo stesso modo le storiografie ucraina e russa sembravano non parlarsi a vicenda, e molto difficilmente inizieranno a farlo da qui a breve. Mentre l’invasione russa in Ucraina continua senza soluzione a breve termine, le memorie storiche di entrambi i paesi fanno fatica a conciliarsi persino sul Medioevo.
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