Crimea 2010 (ilya/flickr)

A dieci giorni dalle elezioni presidenziali l’Ucraina è nel caos. L’esercito è in azione nelle province orientali e scontri tra separatisti e militari di Kiev fanno vittime quasi ogni giorno. Intanto, l’esito del cosiddetto referendum nelle regioni di Donetsk e Lugansk potrebbe rivelarsi un boomerang per la Russia che lo ha sostenuto

15/05/2014 -  Danilo Elia

Il punto di non ritorno nella crisi Ucraina è stato annunciato molte volte dallo scoppio della rivoluzione di Euromaidan, eppure sembra che ogni giorno ne venga passato uno nuovo. Resta da capire a quale ritorno si pensa. Ora che la Crimea è definitivamente persa, che l’Ucraina è sempre più divisa in due, che il baratro della guerra civile si fa paurosamente vicino, e che l’intervento militare russo appare solo questione di tempo, è difficile pensare a un’Ucraina com’era prima. E lo pseudo-referendum dell’11 maggio nelle regioni del Donbass lo conferma.

Chiamarlo referendum è davvero difficile. Le modalità con cui si è svolto dovrebbero essere la principale ragione di dubbio sulla sua legittimità, prima ancora dell’incostituzionalità e della illegittimità della Donetskaja Respublika che lo ha organizzato. Non c’erano liste elettorali, bastava un documento qualsiasi per votare e c’è chi lo ha fatto in più seggi; secondo molte fonti era possibile votare per procura, e ci sono immagini di elettori con due schede in mano; le stesse schede erano dei semplici stampati senza alcun sistema anticontraffazione, mentre durante le votazioni c’era una tale confusione che sembrava di essere a una fiera di paese più che in un seggio elettorale. Spesso le urne erano per strada, e non c’erano cabine per votare. Infine, i seggi erano invasi da miliziani armati che allontanavano in malo modo i giornalisti. Si fa davvero fatica, con queste premesse e senza il vaglio di osservatori indipendenti, a dare il minimo credito al risultato plebiscitario che ne è venuto fuori.

Un modello collaudato

Questo modello non è una novità, e funziona. Basti vedere la Crimea. Le differenze, però, ci sono e costituiscono anche gli elementi che possono rendere il Donbass un pericoloso terreno di scontro. Contrariamente a quanto è avvenuto nella penisola sul Mar Nero, nelle province orientali non c’è una presenza militare russa, a parte forse piccoli gruppi specializzati, mentre il governo di Kiev è già presente con le forze di sicurezza in molte località, da Slovjansk a Marjupol. Una tale situazione potrebbe trasformare la quarta fase della rivoluzione in uno scontro diretto se la Russia decidesse di intervenire.

Alcuni giorni prima del referendum, Putin aveva chiesto alle autoproclamate autorità della Donetskaja Respublika di posticipare il voto al 25 maggio, nello stesso giorno delle elezioni presidenziali. La richiesta del Cremlino ha avuto la duplice valenza di avallare il referendum e dare una ragione in più a chi ritiene che la strategia di Mosca sia volta a destabilizzare l’Ucraina minando proprio l’elezione di un nuovo presidente. Se questo avvenisse, infatti, la Russia non potrebbe più parlare, come fa oggi, di una “giunta golpista di Kiev”. D’altro canto, i leader separatisti hanno fatto di testa loro, mantenendo il referendum per la data prefissata e, subito dopo, chiedendo il supporto della Russia. Sembra evidente che non solo Kiev, ma nemmeno Mosca abbia il controllo della regione. Col risultato che ora Putin si trova stretto tra i proclami in difesa della diaspora russa e un richiesta di aiuto del Donbass, cui sembra rispondere in maniera riluttante.

Una nuova annessione

Putin sembra vittima della sua stessa propaganda. Nei mesi scorsi la macchina informativa del Cremlino ha dato vita a una guerra di notizie a tutto campo, facendo affidamento su un controllo completo dei grossi media e un’elevata penetrazione tra la popolazione russofona. La minaccia neonazista è stata creata quasi dal nulla (le forze di estrema destra emerse da Euromaidan hanno un peso inconsistente a Kiev e non c’è prova che abbiano mai rappresentato un pericolo per le componenti etniche non ucraine) e ripetuta a spron battuto, tanto da svuotarla di significato. Il termine “fascist” oggi non vuol dire quasi niente sulla sponda orientale del Dnipro, non ha una caratterizzazione politica o ideologica, ma si riferisce genericamente a un nemico da combattere con ogni mezzo, con l’aiuto della Russia.

Ma è questo aiuto – che oggi viene chiesto dal Donbass e domani potrebbe essere invocato da altre parti, dalla regione di Odessa a Dnipropetrovsk, alla Transnistria – a rappresentare un’arma a doppio taglio per Putin. Il capo del Cremlino oggi si trova a dover scegliere tra smentire coi fatti le proprie parole o impegnarsi in una nuova annessione, molto più costosa e pericolosa di quella della Crimea. In questo secondo caso, lo scontro armato sarebbe inevitabile.

Le elezioni impossibili

Dal canto suo, il governo di Kiev si è mostrato impreparato e incapace di gestire la situazione, commettendo svariati errori. Non da ultimo quello di dare l’avvio a un intervento di forza nelle aree occupate dai separatisti, parlando di “operazione antiterrorismo”. Anche il ministro dell’Interno di Janukovič chiamò “operazione antiterrorismo” la reazione delle forze speciali Berkut il 18 febbraio, al culmine degli scontri di Kiev. E anche i manifestanti di Euromaidan occuparono per settimane i palazzi del potere nella capitale e in molte città dell’Ucraina occidentale, innalzando barricate e destituendo le autorità legittime. Chiamare “terroristi” i separatisti filorussi, lanciare un’operazione militare e chiudere ogni porta al dialogo potrebbe non essere la scelta migliore.

L’operazione “antiterrorismo” si scontra poi con una catena di comando indebolita dalle defezioni, che lascia i suoi uomini in situazioni critiche senza ordini e spesso di fronte alla scelta tra gettare le armi o sparare sui civili. È stato così anche in Crimea, dove i militari ucraini sono riamasti per giorni in attesa di ordini che non arrivavano, assediati nelle loro basi dall’esercito russo e con la sola possibilità di scegliere tra ammutinare o farsi trucidare.

Le elezioni presidenziali del 25 maggio potranno rappresentare un nuovo punto di svolta, ma c’è da capire in che direzione. Innanzitutto, con una parte del paese fuori da ogni controllo, è da vedere se la data sarà confermata. In ogni caso, è altamente improbabile che nelle regioni dell’est le votazioni si potranno svolgere regolarmente, o addirittura che si terranno affatto. Se il governo non riprenderà prima il pieno controllo delle regioni separatiste, il risultato sarà un presidente che sarà stato legittimamente eletto solo da una parte dell’Ucraina. Kiev avrà anche l’avallo degli Stati Uniti e dell’Unione europea (e forse anche un tiepido riconoscimento della Russia) ma delegittimerà da sola la propria sovranità nell’est del paese. E sarà come decidere di rinunciare al Donbass.


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