È passato ormai un anno dal furto dei capolavori di Mantegna, Rubens, Tintoretto e altri maestri dal museo di Castelvecchio a Verona, e sei mesi dal loro ritrovamento in Ucraina. Ma le tele sono ancora a Kiev
“Sacra famiglia con santa”, di Andrea Mantegna, “Ritratto di giovane con disegno infantile”, di Francesco Caroto, “Dama delle licnidi”, di Paul Rubens, cinque opere di Jacopo Tintoretto, tra cui la “Madonna allattante” e il “Trasporto dell’arca dell’alleanza”, più un’altra decina di tele di Pisanello, de Jode e della bottega di Tintoretto.
Rubati, anzi rapinati, esattamente un anno fa dal museo di Castelvecchio a Verona e ritrovati lo scorso maggio nelle campagne intorno a Odessa. Ora, a sei mesi dal loro recupero e dopo un tira e molla fatto di sorrisi e convenevoli, le opere non sono ancora rientrate in Italia. Né si sa con certezza quando l’Ucraina le restituirà.
A dire il vero, non è chiaro nemmeno dove si trovino con precisione. Secondo quanto riferito a OBC Transeuropa da Paola Marini - al tempo direttrice del museo di Castelvecchio - durante una sua visita a Kiev su incarico della procura di Verona, i quadri si trovavano nella residenza del presidente ucraino, Petro Poroshenko. La stessa Marini però ha detto di aver ricevuto informazioni dall'ambasciata secondo cui le tele sarebbero poi state trasferite nel museo d’arte occidentale e orientale Bogdan Khanenko, dove si troverebbero tuttora. L'ambasciatore italiano a Kiev non ha però risposto alla richiesta di confermare.
Interpellato da OBC Transeuropa, l’ufficio stampa del presidente Poroshenko ha detto che i quadri “dovrebbero fare ritorno entro la fine dell’anno. Al momento, stiamo negoziando una data che vada bene per entrambe le parti”.
Restituire la refurtiva
In queste parole è sintetizzato il paradosso dell’intera vicenda. Una vicenda che sta imbarazzando le autorità italiane. “Quei quadri sono corpo del reato, e chi li detiene non ha alcun titolo per farlo”, ha detto a OBC Transeuropa il pm Gennaro Ottaviano, titolare delle indagini che hanno portato al loro ritrovamento.
La procura è stata informata del ritrovamento delle tele solo l’11 maggio, ben cinque giorni dopo che le forze di polizia ucraine erano riuscite recuperarle, peraltro grazie alle informazioni date dagli investigatori italiani che avevano arrestato alcuni componenti della banda. La rogatoria per il loro rientro a Verona è stata inviata il 17 maggio. “Già allora avevamo indicato la data per il volo di stato che li avrebbe riportati indietro: il 25 maggio”, ha detto ancora Ottaviano. Ma non è bastato. Gli ucraini hanno voluto una perizia, così Paola Marini è volata a Kiev per riconoscere i “suoi” quadri. “Erano in una sala di riunioni del palazzo presidenziale, decorosa ma anche disadorna”, ha detto l’ex direttrice del museo di Castelvecchio.
Intanto, la rogatoria è rimasta inevasa, nonostante i quadri siano refurtiva e non restituirli, di fatto, costituisca reato. Se fossero in Italia si manderebbero i carabinieri a prenderli con la forza, ma siccome sono in Ucraina la palla è passata alla diplomazia.
La trattativa tra Renzi e Poroshenko
E' da quel punto che la vicenda ha toccato le vette del paradosso. Come quando, a giugno, con i quadri rubati è stata organizzata una mostra al museo Khanenko di Kiev. In quell’occasione il sindaco di Verona, Flavio Tosi, tra sorrisi e ringraziamenti reciproci, ha conferito la cittadinanza onoraria a Poroshenko, invitandolo ad accompagnare di persona i quadri nella loro “casa” di Castelvecchio. Poroshenko, però, sembra non accontentarsi di essere ricevuto da un sindaco e, secondo indiscrezioni, aspetta una visita di stato per consegnare le tele nelle mani del presidente del consiglio, Matteo Renzi. Indiscrezione confermata anche dalla dichiarazione rilasciata a OBC Transeuropa dall’ufficio stampa della Bankova, secondo cui il presidente ucraino sta “negoziando una data”. Per restituirli, infatti, non serve concordare una data né c’è bisogno di una visita di stato, ma solo metterli su un aereo ottemperando agli obblighi del diritto internazionale.
“Credo che sia arrivato il momento in cui i quadri tornino a casa. Gestirò il problema personalmente, telefonerò e alla prima occasione incontrerò il presidente Poroshenko”, aveva detto a settembre Renzi durante una visita a Verona. Il presidente del Consiglio aveva anche aggiunto che, incontrato in un’occasione ufficiale, Poroshenko aveva assicurato novembre come termine massimo. La dichiarazione resa a OBC Transeuropa, “entro fine anno”, sposta il termine già più in là.
Più il tempo passa, però, più diventa imbarazzante per il governo italiano accogliere in pompa magna chi si rifiuta da mesi di restituire ciò che non è suo. Ed è un peccato, perché questa in fondo dovrebbe essere una storia di successo, una di quelle iniziate nel peggiore dei modi ma finite bene.
Una questione politica
Una storia iniziata la sera del 19 novembre 2015 con tre rapinatori armati che entrano nel museo di Castelvecchio a Verona, poco prima della chiusura, fingono di immobilizzare la guardia giurata complice e portano via 17 capolavori scelti tra l’intera collezione. Continuata con un inutile strascico di polemiche sulla sicurezza, perché da un furto la si può anche difendere una pinacoteca, ma dall’assalto di un commando di rapinatori aiutati da una guardia giurata infedele è decisamente più difficile. Finita con l’arresto dei criminali e il recupero di tutte le opere sane e salve in meno di sei mesi.
Un successo degli investigatori italiani e i carabinieri del Nucleo tutela patrimonio, che già dal 16 marzo erano sulle tracce di una banda moldava, “dei fantasmi, gente senza fissa dimora che cambiava schede telefoniche ogni settimana”, nelle parole del pm Ottaviano. Poche settimane dopo, con sette arresti in Italia e cinque in Moldavia, la banda era sgominata, ma restavano da recuperare i quadri in possesso degli ultimi due latitanti, fuggiti a Odessa. “Abbiamo dato agli ucraini tutti i dettagli per trovare i quadri, gli abbiamo detto chi ce li aveva, chi erano i fiancheggiatori dei latitanti, gli abbiamo dato persino i numeri di telefono”, ha detto ancora Ottaviano. Il ritrovamento però è avvenuto mesi dopo e solo a seguito del richiamo di Eurojust, l’agenzia della giustizia europea, alla procura ucraina.
La sensazione riferita dalle autorità italiane è di aver a che fare con una controparte non proprio vogliosa di collaborare. “Non posso farci niente, è una questione politica”, avrebbe confessato a denti stretti il procuratore generale dell’Ucraina, di fatto sconfessando il suo ruolo di capo della magistratura indipendente, il cui compito dovrebbe essere quello di ottemperare alla rogatoria internazionale avanzata dall’Italia e non di rispondere al potere politico.
Un concreto segnale che il paese del dopo Rivoluzione della dignità, iniziata proprio in questi giorni di tre anni fa sulla Maidan Nezaležnosti, fa ancora molta fatica ad assimilare i basilari valori delle democrazie occidentali, compresa la separazione dei poteri.
Intanto in Italia il processo ai criminali si è concluso. La sentenza è attesa per il 5 dicembre.
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