Siamo stati a Kryvyj Rih, città industriale nell’Ucraina centrale. Lì abbiamo indagato su cosa le organizzazioni dei lavoratori stanno facendo e su come hanno reagito al conflitto
Sebbene Kryvyj Rih resti spesso a margine delle cronache e dei racconti sulla guerra in Ucraina, la città dell’oblast di Dnipro (situata circa 400 chilometri a sud-est della capitale e poco più di 200 chilometri a nord di Kherson) può essere considerata per certi versi uno dei centri del paese. Non solo per la sua posizione, appunto, “mediana” fra est e ovest, nel cuore della pianura che si sviluppa attorno al Dnepr, ma anche e soprattutto, dal punto di vista simbolico, perché ha dato i natali al presidente Volodymyr Zelens'kyj, il 25 gennaio di quarantacinque anni fa. Nelle prime settimane dell’aggressione, l’avanzata dell’esercito russo si è arrestata non distante da qui (occupando la centrale nucleare di Zaporižžja e la città di Kherson, ora liberata).
Città industriale
Un altro dei motivi per cui Kryvyj Rih può essere considerata uno dei centri nevralgici dell’Ucraina è la sua produzione industriale. L’acciaieria che vi ha sede, di proprietà ArcelorMittal, è la più grande del paese e, fino allo scoppio della guerra, era responsabile del 20% della produzione di acciaio sul territorio nazionale dando lavoro a oltre 22.000 persone (nel 2019, inoltre, l’Ucraina è stata la settima più grande produttrice di minerale di ferro del mondo).
In città sono registrati oltre 50 stabilimenti e fabbriche per una popolazione che si attesta attorno ai 600.000 abitanti. Una caratteristica che, soprattutto negli ultimi anni, l' ha resa teatro di importanti scioperi, proteste e rivendicazioni di natura lavorativa: già nel 2014 ad esempio, nel convulso contesto successivo alla sollevazione di Euromaidan e all’annessione russa alla Crimea, si svolsero alcune mobilitazioni che vennero lette prevalentemente come “patriottiche”, ma in realtà di natura sindacale (da notare come, in seguito alla crisi di quell’anno, il valore della valuta nazionale fosse diminuito di ben tre volte, portando di fatto ad un crollo del salario medio reale: ad ArcelorMittal, si è passati dalle 5808 hryvnia [534 Euro] del 2013 alle 10278 hryvnia [306 Euro] di quattro anni dopo). A maggio 2017, un’ondata di proteste coinvolse i principali stabilimenti cittadini: i dipendenti delle fabbriche riuscirono a fermare la produzione, organizzare incontri e iniziative pubbliche e anche occupare dei palazzi istituzionali, strappando infine un accordo per il graduale aumento dei salari. Infine, nel 2020, uno sciopero iniziato il 3 settembre da una dozzina di persone impiegate presso la miniera Oktiabrska, vide nel suo momento di massima partecipazione oltre 400 manifestanti rimanere sottoterra ad una profondità di 1,3 chilometri e il blocco totale della produzione.
Con lo scoppio della guerra, la situazione è ovviamente mutata. Molte persone sono fuggite, altre sono andate al fronte (pare attorno ai 2000 dipendenti di ArcelorMittal). Altre ancora si sono rifugiate a Kryvyj Rih scappando dalle regioni occupate o dove si combatte: secondo le stime dell’amministrazione comunale, al momento dovrebbero esserci almeno 60.000 sfollati interni, di cui circa 20.000 provenienti dal Donbass e altri 40.000 che sono arrivati dalla zona di Kherson, città ora ritornata sotto il controllo ucraino, ma costantemente sotto il fuoco di artiglieria russo (il 27 gennaio, due donne sono rimaste uccise e cinque civili feriti).
Le industrie stanno operando a capacità ridotta, attorno al 30% stando alle testimonianze di alcuni lavoratori. I salari sono diminuiti, così come le possibilità di impiego. In un contesto del genere, cambia anche il ruolo di chi è sempre stato in prima linea nel difendere i diritti di lavoratori e lavoratrici: “Come organizzazione militante siamo sempre stati contro il potere vigente, ma con l’inizio della guerra abbiamo lasciato da parte questo tipo di politica”, ci racconta il rappresentante di un sindacato indipendente del settore della sanità di Kryvyj Rih, che preferisce rimanere anonimo. “Ci è sembrato al contrario che l’urgenza maggiore fosse aiutare lo stato e la collettività nella lotta contro l’aggressore e chiedere aiuti in cambio di poter svolgere il proprio lavoro. Non è un discorso astratto: quando tanti tuoi colleghi o tante tue colleghe sono al fronte, capisci che è la cosa più importante da fare. Certo, non sempre otteniamo la giusta attenzione e la giusta ricompensa per quanto facciamo, ma intanto ci pare necessario fare il nostro dovere”.
Negli ospedali e nel settore della sanità, le difficoltà legate alla guerra sono diventate particolarmente rilevanti negli ultimi mesi: come spiega questa inchiesta di "OpenDemocracy", la contingenza bellica unita ad una controversa riforma del mercato interno del 2018 (che, sostanzialmente, poneva le diverse strutture sanitarie in competizione fra loro e legava i pagamenti del personale all’effettiva prestazione dei servizi) ha fatto sì che per almeno tre mesi durante lo scorso autunno buona parte dei dipendenti non percepisse alcuno stipendio. A questo si aggiungono attacchi veri e propri di missili e artiglieria che spesso coinvolgono le strutture sanitarie (l’Oms ne ha registrati a novembre scorso oltre 700). “Siamo a circa 70 chilometri dal fronte ed è chiaro che qui è arrivata una grossa quantità di feriti di guerra”, prosegue il sindacalista. “Non troppo tempo fa, inoltre, un missile ha colpito un’area non distante dall’ospedale. In generale, abbiamo avuto una forte carenza di farmaci e alcuni dei macchinari con cui operiamo sono obsoleti e malfunzionanti. Solo grazie alle donazioni e agli aiuti internazionali ce la stiamo facendo”.
Sindacati e attivisti, sostanzialmente, si stanno unendo allo sforzo civile per far fronte alle conseguenze della guerra. Quando, dopo la controffensiva estiva da parte delle truppe di Kyiv, la Russia ha dato il via alla campagna di attacchi missilistici mirati soprattutto alle infrastrutture energetiche, Kryvyj Rih è presto saltata all’attenzione per via del danneggiamento della diga che regola il flusso del fiume Inhulets avvenuto il 15 settembre e il conseguente allagamento parziale della città. “Possiamo dire che il sindacato si occupa di tutto”, ha affermato il rappresentante del sindacato indipendente dei minatori di Kryvyj Rih Yuri Samoliov in un’intervista a LabourSolidarity.org. “Svolgiamo parecchie attività umanitarie, ed è come se avessimo dovuto riconvertire tutte le nostre attività in un’ottica militare. A volte, per esempio, ci sono persone che mi chiamano dicendomi che un loro conoscente o parente è caduto al fronte e il suo corpo giace da qualche parte in territorio “neutrale” non lontano dalla città, affinché le aiuti ad andare a recuperarlo. All’inizio della guerra, il nostro compito era quello di aiutare i nostri membri che servono nell’esercito. Intendo proprio ad un livello base: vestiti, accessori, indumenti caldi, qualsiasi necessità che potesse migliorare le loro condizioni”. È una prospettiva condivisa anche da Vyacheslav Fedorenko, rappresentante del sindacato locale dei ferrovieri: “Praticamente in questo momento le ferrovie sono un’organizzazione di guerra”, ci dice mentre mostra le scatole di aiuti umanitari che campeggiano nel suo ufficio. “All’inizio, anche se può sembrare strano, davvero non avevamo niente. Non c’erano medicinali, non c’erano giubbetti o elmetti… davvero niente. Tutti erano pronti a fare barricate per difendersi, perché capivano l’entità della minaccia russa, ma con cosa? Ora che sono arrivati gli aiuti da Europa e Usa è decisamente meglio”.
Nuove leggi
Al di là del contrasto all’invasione, le condizioni sul lavoro non sembrano però essere per nulla rosee. “Il livello di occupazione si è ridotto enormemente e i salari sono crollati”, prosegue Vyacheslav Fedorenko in maniera secca e perentoria. “Il punto è che proprio non c’è lavoro. Che cosa c'è da trasportare? Pure le ferrovie dell’ovest sono praticamente ferme”. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, con l’inizio della guerra nel paese sono andati perduti almeno 2,4 milioni di posti di lavoro rispetto all’anno precedente. Come già segnalato, la compressione salariale si fa sentire praticamente in quasi tutti i settori (qui una recente lettera di un autista di filobus di Karkhiv) e gli attacchi russi alle infrastrutture non hanno fatto che peggiorare la situazione.
Nonostante questo e nonostante la fondamentale partecipazione della classe operaia allo sforzo di resistenza, il governo Zelens'kyj sembra dare ascolto quasi esclusivamente agli interessi di datori di lavori e dei grandi oligarchi: sotto la legge marziale, è stata introdotta infatti una serie di nuove regolamentazioni (n. 2136, 2352, 2421, 2454 e 5371) che hanno fortemente ridotto i diritti sindacali, lasciando mano libera alle imprese in termini di licenziamento e di ridefinizione contrattuale. Senza contare che, per il momento, scioperi e manifestazioni sono vietati. Come ha fatto notare il sindacalista Kiril Buketov durante una conferenza che riguardava proprio l’adozione delle suddette leggi: “Il comportamento del governo ucraino è sorprendente. Se si guarda ai provvedimenti che peggiorano la condizione di lavoratori e lavoratrici, non si può che scorgere una somiglianza con il percorso che ha compiuto la Russia in termini di diritti sul lavoro. L’Ucraina non dovrebbe assolutamente scivolare su questa strada”.
Al momento, tuttavia, le priorità sono altre. “In generale, le persone cercano semplicemente di sopravvivere e il nostro compito principale rimane quello di salvare vite”, ci dice il sindacalista attivo nel settore della sanità. Specifica Yuri Samoliov, rappresentante dei minatori, cui abbiamo posto qualche domanda da remoto: “Con gli attacchi missilistici degli ultimi tempi, ci sono continue interruzioni della corrente elettrica e della fornitura d’acqua. Abbiamo avuto diversi morti e feriti anche fra i nostri compagni del sindacato e ci sono sempre più vedove od orfani. Ora ci occupiamo di questo”.
Fra dicembre e gennaio, ad esempio, alcuni rappresentanti sindacali fra cui lo stesso Samoliov hanno organizzato il “Natale dei lavoratori e delle lavoratrici”, un’iniziativa di solidarietà pensata in particolare per le famiglie di chi è andato a combattere al fronte e che ha ricevuto anche appoggio finanziario internazionale. D’altronde, più che l’opposizione frontale contro le misure antisindacali del governo o l’organizzazione di proteste che avrebbero scarso seguito, in questo momento il compito che si pone chi difende i diritti sul lavoro è quello di creare delle comunità di sostegno reciproco. Come ha scritto il direttore dell’Ong Labor Initiatives George Sandul sull’ultimo numero della rivista dell’Istituto sindacale europeo: “I sindacati sono essenziali per permettere che sopravvivano i legami umani, non solo in tempo di pace, ma anche in tempo di guerra. Rappresentano la parte di società civile che contribuisce nella maniera più attiva alla distribuzione dei beni di prima necessità […]. Fintanto che esiste una forte comunità rinsaldata dallo spirito sindacalista, ecco che si instaura una piccola democrazia locale che, nel contesto attuale, può letteralmente salvarci”. Sopravvivere in Ucraina, oggi, non può che essere un atto collettivo.
Il 10 marzo, missili si sono abbattuti sull’aeroporto internazionale della città: secondo l’attuale sindaco de facto e capo dell’amministrazione militare di Kryvyj Rih Oleksander Vilkul, le intenzioni delle truppe di Putin erano quelle di utilizzare lo scalo aereo – il più grande della regione – come base per poi invadere tutto il sud dell’Ucraina.
“Gli aerei russi erano vicini ma non sono riusciti ad atterrare”, ha raccontato al “The New Statemen”, spiegando come avesse predisposto la difesa della zona. La storia stessa di Vilkul è insieme rocambolesca ed emblematica, se pensiamo ai cambiamenti politici che sta attraversando l’Ucraina negli ultimi tempi e che sono stati fortemente accelerati dall’invasione dello scorso 24 febbraio: già membro del governo durante la seconda presidenza di Yanukovych, è sempre stato considerato di orientamento “filo-russo” tant’è che, in seguito alla sollevazione di Euromaidan e alla conseguente fuga di Yanukovych, ha continuato a svolgere la propria attività con la forza elettorale che si era creata in seguito al disgregamento del Partito delle Regioni, il Blocco di Opposizione (ora messo fuori legge).
Nel 2018, in vista delle elezioni che avrebbero poi consacrato Zelens'kyj come presidente del paese, ci fu però un primo strappo: il Blocco di Opposizione si divise in due fazioni distinte che – commentava al tempo l’analista Kostantin Skorkin – “facevano riferimento” l’una a Rinat Akhmetov, potente imprenditore che fra le altre cose possedeva le acciaierie Azovstal di Mariupol, e l’altra a Viktor Medvedčuk, oligarca vicino alle forze separatiste del Donbass e per questo messo sotto processo e posto agli arresti domiciliari nel 2021, arrestato nuovamente dopo lo scoppio dell’attuale conflitto e infine consegnato alle autorità di Mosca nell’ambito di uno scambio di prigionieri lo scorso settembre.
Vilkul divenne il rappresentante della prima fazione: “Medvedčuk è venuto da noi politici dell’Ucraina meridionale e orientali dicendoci che avremmo dovuto concordare le nostre azioni e le nostre politiche col Cremlino”, ha continuato a raccontare il capo dell’amministrazione militare di Kryvyj Rih al “The New Statesman”, spiegando come il suo atteggiamento verso la Russia sia gradualmente cambiato da quel momento. “Gli ho detto che non l’avrei fatto. Così, Medvedčuk ha chiamato Mosca e il giorno dopo sono stato posto sotto sanzioni dal governo russo”. A rendere il tutto ancora più tortuoso, però, è anche il fatto che al momento del 24 febbraio Vilkul non aveva alcun ruolo politico a Kryvyj Rih: come ricostruisce questo reportage di “Opendemocracy”, infatti, la sua nomina a direttore delle operazioni militari dell’area è dovuta alla determinazione che ha mostrato nelle prime ore dell’invasione e all’autorità che, assieme al padre Yuri, può esercitare nell’area grazie alla sua precedente esperienza nell’amministrazione di una miniera di ferro a nord della città, sotto il controllo della multinazionale Metinvest (il cui proprietario è, appunto, il già citato Rinat Akhmetov).
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