Erano gli anni in cui Mussolini finanziava e armava in tutta Europa chiunque mostrasse un’affinità ideologica al proprio regime. Ed è in quel periodo che si snoda la piccola vicenda di otto ucraini in Italia. Una piccola storia che si incrocia con la grande Storia
Spesso le piccole storie si intrecciano alla Storia più grande, con la s maiuscola. È certamente il caso di questa strana piccola vicenda. Un vicenda microscopica, che sarebbe rimasta insignificante se la Storia non fosse tornata con forza d’attualità. Stiamo parlando di Ucraina, anzi di un piccolo gruppo di ucraini che arriva in Italia novant’anni fa, fra il 1933 e il 1934. Sono emigranti politici, che operano per l’indipendenza della propria terra dall’Unione Sovietica, ma in conflitto anche contro gli altri paesi vicini: Polonia, Romania, Ungheria. È un’epoca in cui l’Italia fascista sta conducendo una spregiudicata politica estera con l’intento di stabilire una propria egemonia su tutta l’Europa danubiano-balcanica: dall’Austria alla Bulgaria, dall’Albania alla Polonia.
La diplomazia del regime opera su più piani: uno propriamente diplomatico (con risvolti politici, economici e culturali), l’altro occulto, finanziando e appoggiando gruppi estremisti, violenti ed eversivi in tutta la regione, purché dichiaratamente anticomunisti e disposti a farsi strumento degli interessi fascisti. Uno degli alleati privilegiati del regime è l’ultranazionalista croato Ante Pavelić, che pochi anni prima ha lasciato la Jugoslavia e ha fondato in Italia il gruppo terrorista degli ustascia. È all’apice del suo rapporto con il regime, tanto da organizzare in Italia un attentato eclatante: l’omicidio del re jugoslavo Alessandro I, in visita in Francia, a Marsiglia, il 9 ottobre 1934.
Ne segue una crisi internazionale senza precedenti: tutto il mondo addita l’Italia di Mussolini per il supporto offerto ai terroristi croati. Il regime fascista corre allora ai ripari, arrestando lo stesso Pavelić e confinando i suoi uomini sull’isola di Lipari. È qui che le fonti di polizia ci segnalano la presenza di otto ucraini nel centro di addestramento degli ustascia, all’epoca a San Demetrio in provincia de L’Aquila. Era stato lo stesso Pavelić ad accogliere quegli uomini, sostenendo che “in Croazia esistono villaggi abitati da ucraini e che di conseguenza in un movimento insurrezionale da parte degli ustascia anche gli elementi ucraini avrebbero potuto essere giovevoli”.
Un'affermazione abbastanza assurda, se si pensa che si trattava di ucraini cresciuti fra Polonia e Germania, senza alcun legame linguistico né culturale con le piccole comunità ucraine presenti nella Bosnia settentrionale. Ma le autorità fasciste non vanno molto per il sottile, e così come avevano accolto gli ucraini aggregandoli agli ustascia, ora li trasferiscono con loro al confino sull’isola di Lipari.
La bufera successiva all’attentato di Marsiglia non accenna a diminuire. Intanto l’Europa è attraversata da nuovi scossoni: Hitler sta consolidando il proprio potere in Germania; Mussolini sferra l’attacco all’Etiopia; da lì a poco i due dittatori si troveranno sullo stesso fronte in Spagna, a difendere il golpista clerico-fascista Francisco Franco.
Gli otto ucraini intanto vengono trasferiti da Lipari a Tortorici, in provincia di Messina. È il maggio del 1935 e finalmente il poliziotto che se ne occupa (l’ispettore Ercole Conti, da Pisa*) ci offre qualche informazione in più su di loro. Sono membri dell’OUN (Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini), un gruppo estremista ispirato al fascismo, fondato a Vienna nel 1929, significativamente negli stessi mesi degli ustascia croati. La bandiera del partito è oggi molto nota: è quella spada gialla su sfondo azzurro che vediamo spesso in relazione ai settori più estremisti dell’attuale nazionalismo ucraino. Peraltro sia Svoboda che Pravyj Sektor si considerano eredi della tradizione politica dell’OUN e del suo leader antisemita e collaborazionista dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale: Stepan Bandera.
Ma torniamo a Tortorici: chi sono gli otto ucraini al confino in Sicilia nel 1935, e che fine fanno?
In base alle trascrizioni italiane si chiamerebbero Leombard Kries, Franz Gregor, Georg Wetzki (o Vezkyj), Rudolf Kutsker (o Kucer), Nikola Cernik (o Ciornyj). Ad essi sono aggregati due studenti, considerati gli intellettuali del gruppo: Michele (sic) Muszynsky e Aleksandr Bandera, fratello del più noto Stepan. Tutti sono agli ordini di un ex ufficiale, Knut Husar, e posti sotto il controllo politico di un emissario del partito, tale Euhen Onatsky, proprietario di un albergo a Roma, in corso Italia 6.
La gestione degli otto ucraini si rivela più difficile del previsto. Si tratta di individui animati “dai comuni ideali del fascismo universale”, come afferma lo stesso Onatsky nell’ottobre del 1935, e sono smaniosi di riottenere la libertà e agire per la propria causa. Al tempo stesso però sono al corrente dei tanti segreti della diplomazia parallela fascista e non possono essere lasciati liberi di muoversi fuori dal controllo delle autorità. Mentre i capi attendono con pazienza le decisioni del regime, i più giovani si dimostrano “riottosi e insofferenti”, secondo le parole dell’ispettore Conti. Per meglio controllarli, nel marzo del 1936 ne trasferisce tre a Stromboli. Nonostante l’estremo isolamento due di loro trovano il modo di fidanzarsi con ragazze dell’isola. Rudolf Kutsker chiede il permesso di sposare Nunzia Cusulito; Georg Wetzki ha una relazione con Vincenzina Russo, ventottenne già sposata con un emigrante in Australia di cui si sono perse le tracce. Non ha un cuore romantico, però, l’ispettore Conti. A giugno i tre sono trasferiti, per punizione, a Filicudi. Le relazioni vengono impedite in ogni modo, la corrispondenza censurata e alle donne viene proibito di viaggiare e di comunicare coi fidanzati.
Passa ancora un anno, la guerra d’Etiopia è finita, il clima internazionale è mutato. Nel maggio del 1937 i due studenti (Muszynsky e Bandera) riprendono gli studi alla Sapienza di Roma, prendendo alloggio in via Antonio Bosio 15. A giugno Knut Husar ottiene il permesso di trasferirsi a Vienna, per proseguire il lavoro con l’OUN.
Curiosa è invece la vicenda dei giovani meno istruiti del gruppo. Georg Wetzki e Nikola Cernik conducono per un certo periodo uno sciopero della fame, con lo scopo di essere liberati, ma finiscono invece in carcere a Messina. Franz Gregor perde del tutto la pazienza e, in un incontro con l’ispettore Conti, si pianta un coltello nella mano, come estremo gesto di protesta. Viene ricoverato in manicomio e poi trasferito con gli altri a Filicudi. Insieme a Georg e Nikola viene infine trasferito a Napoli e qui imbarcato a forza su una nave giapponese diretta a Singapore: è il 10 ottobre del 1937. Da questo momento in poi se ne perdono le tracce.
La piccola storia di questi otto nazionalisti ucraini si incrocia inevitabilmente con quella più grande, ma le fonti a disposizione non ci consentono di raccontare oggi molto di più. Non sappiamo ad esempio se hanno operato durante la guerra al fianco di Stepan Bandera, il leader del movimento, che nel 1941 sceglie la collaborazione con i nazisti invasori e collabora attivamente alla campagna di sterminio contro le comunità ebraiche in Ucraina. L’unico di cui abbiamo ulteriori notizie è il fratello di Bandera, Aleksandr, ex studente in Italia, che viene ucciso da altri detenuti ad Auwschitz nel 1942, insieme al cugino Vasilij. È tutto. Una ricerca ancora da compiere, partendo da quegli strani anni in cui Mussolini finanziava e armava in tutta Europa chiunque mostrasse un’affinità ideologica al proprio regime.
*Tutte le informazioni su questa vicenda provengono dal fondo “Ercole Conti”, conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, Ministero degli Interni, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza.
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