Lasciapassare - prepustnica - propustnica

A Trieste la storia fa fatica a essere storia. Spesso è mito, troppo spesso ancora è rito. Se il passato si facesse storia in questa terra, Trieste potrebbe fare un passo avanti. E Trieste potrebbe pensare, senza paure, di essere sempre stata una città di confine

07/10/2008 -  Gian Matteo Apuzzo

"Me ricordo co' iero sai picio che mia mama con siora Teresa la partiva de matina per 'ndar in Jugo a far la spesa.."

Con questa strofa della canzone di Lorenzo Pilat sono cresciute varie generazioni di triestini e non solo, canzone che celebrava, se così possiamo dire, i riti e i miti del confine, che faceva parte della quotidianità della gente ma allo stesso tempo rappresentava un'incognita, un mondo non privo di paure. Come il graniciaro jugoslavo, il "finanziere", al quale la canzone dedica il titolo e il ritornello, rappresentava proprio la figura idealtipica del confine e dei passaggi di confine. La domanda "qualcosa da dichiarare?" poneva in essere l'autorità del confine, il controllo, ad indicare che sebbene questo fosse forse il confine più aperto della cortina di ferro era pur sempre un confine vero.

Sulla risposta a questa domanda si sono giocate in passato le sorti dei passaggi transfrontalieri di molti di noi frequentatori abituali delle "compere d'oltre confine". Andare a fare la spesa "in Jugo", andare a far benzina, a comprare le sigarette, sono entrate nella memoria personale e familiare delle genti del confine nord-orientale, e sono parte della storia collettiva di Trieste e Gorizia. E quei ricordi e quei riti della quotidianità sono talmente radicati che ancora oggi per le stesse attività si tende a usare automaticamente il termine "Jugo" - come ad esempio nella frase "vado in Jugo a far benzina" - anche se ormai su tutto il resto si è abituati a usare i nomi di Slovenia e Croazia.

In questi ricordi ai riti si sovrappongono i miti, con cui ognuno di noi ricorda le persone, i luoghi, le cose, di quel mondo vicino e sconosciuto che era il confine. Così benzina, carne, sigarette, alcolici, sono anch'essi nella memoria simboli, beni che si portavano "al di qua" del confine. I miti appunto, piccoli e personali: ognuno nel suo piccolo sfidava i limiti imposti, "contrabbandando" un chilo in più di carne, una bottiglia di qualche alcolico, più pacchetti di sigarette, beni come sempre sparsi in diverse parti dei vestiti e in ogni angolo dell'auto. E si andava a far la spesa appositamente in due o tre per poter portare più quantitativi di alcuni alimenti o di alcuni beni.

Miti e riti riemersi in modo evidente nelle memorie di giovani e meno giovani la notte della caduta definitiva del confine, come molto ben dimostrato dal documentario di Kinoatelje titolato "Eu-foria". Sono stati infatti questi i ricordi principali che hanno caratterizzato i discorsi tra le persone mentre si festeggiava per le strade e sui confini lo scorso dicembre: "ti ricordi quando dovevamo aprire le stecche di sigarette e distribuire i pacchetti nelle tasche e sotto i sedili dell'auto?".

Il confine, rivissuto interiormente, dimostra ancora oggi quanto per Trieste esso fosse lontano e vicino allo stesso tempo. Non esiste un confine naturale, la storia ha diviso queste terre, così a volte i segni del confine erano deboli, come i cippi bianchi sparsi qua e là. I triestini che corrono, tanto celebrati da Mauro Covacich nei suoi libri, hanno anch'essi vissuto col confine, nelle corse sul Carso, nei percorsi dei circuiti così vicini al confine che sconfinare era questione di pochi passi. Nei percorsi dei boschi di Basovizza, Gropada, Padriciano, ma anche in molti altri sentieri del Carso, i corridori o i semplici frequentatori si imbattevano spesso nei cartelli che segnalavano il confine a pochi metri: "Attenzione, confine a 100 m", "... a 40 m", "... a 10 m".

Sconfinare era facile ma non ammesso, come sui sentieri e nelle arrampicate della Val Rosandra, dove solo nel borgo di Bottazzo esisteva una sbarra, con le due "garitte" italiana e jugoslava da una parte e dall'altra di un piccolo ponticello sul torrente. Proprio in quel luogo si festeggiava una volta all'anno la giornata dei "confini aperti", fin dal 1981, quando la caduta del muro, anche del muro di queste terre, non era ancora prevedibile.

Lo sconfinare involontariamente su qualche sentiero, l'essere sorpresi dalla "Milica" jugoslava ed essere per questo portati al comando di Capodistria per controlli, è stata un'avventura vissuta da molti, divenuta nei ricordi uno dei miti della vita di confine.

Come lo è quella parola, quell'intimazione, "Stoj!" ("Alt!", "Fermo!" in italiano) che usavano con autorità i poliziotti armati di mitra che sorprendevano gli involontari "sconfinanti", divenuta tanto comune da essere spesso usata dai ragazzi triestini nei loro giochi.

Confine aperto, confine chiuso, con i suoi simboli, i suoi segreti, i suoi passaggi, che diventavano una parte di te. Come la "prepusnica", il "lasciapassare", il documento con il quale i residenti delle zone confinarie potevano oltrepassare il confine e circolare in un ampio territorio (corrispondente in pratica all'area della ex zona B). La prepusnica permetteva di attraversare il confine attraverso i valichi "minori", quelli secondari, non classificati come "internazionali". Per noi, gente di confine, era naturale prendere le strade secondarie, ma era anche un modo utile a evitare le file delle giornate trafficate.

Appartenenza e distanza, presenza e distacco, erano elementi che venivano vissuti contemporaneamente. Mondi in qualche senso lontani, eppure così vicini, da "permettere" agli italiani di vivere la breve guerra di indipendenza della Slovenia quasi sulla propria pelle: come non ricordare il rombo che segnalava lo sconfinamento dei caccia jugoslavi che arrivavano fin sul golfo di Trieste per virare e rientrare? E chi dimentica le pallottole vaganti fin sulle caserme italiane sul confine, oppure i segni dei cingolati sulle strade oltre confine nei primi anni dopo l'indipendenza?

Una guerra vicina, eppure così lontana, come in fondo era il confine. Guerra che Trieste ha vissuto con sofferenza ma spesso anche con distacco, per poi esserne segnata nel profondo dalla morte dei "suoi" tre giornalisti e operatori della RAI, Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D'Angelo, uccisi da una granata a Mostar il 28 gennaio del 1994.

Rispetto ai luoghi di confine esiste però una profonda differenza tra Trieste e Gorizia. Per Gorizia essi sono spazi urbani, più vicini, più integrati al tessuto cittadino e quindi più vissuti e più identitari. A Trieste sono sempre stati periferia, luogo di passaggio e di transito, "isole", con la propria organizzazione degli spazi e delle professioni e dei lavori connessi al confine, e quindi più tipicamente "terra di nessuno". Luoghi privi di identità e allo stesso tempo uguali ad altri luoghi, più modernamente chiamati non-luoghi. Con i loro free-shop, altro segno fortemente rimasto nella memoria collettiva che sono stati anch'essi simbolo del passaggio tra diversi mondi.

A Trieste per molti anni il confine si vedeva da altre cose, come ad esempio dai pulmann di acquirenti dell'est e sud-est Europa che numerosissimi riempivano le strade del centro e invadevano il lungomare sostando lungo le rive. Era un rito, comparivano il sabato all'alba e ripartivano nel tardo pomeriggio. Centinaia e centinaia di persone venivano dalla Jugoslavia, ma in seguito anche dalla Bulgaria e dalla Romania, a comprare quello che non trovavano nei loro paesi. Il confine per Trieste era quindi anche la presenza di tantissimi negozi di jeans, tanti nelle strade del Borgo Teresiano, troppi, se si pensa a quanto hanno "monopolizzato" il commercio cittadino e quanto hanno bloccato lo sviluppo di un'alternativa una volta finita l'epoca degli acquirenti "poveri" dall'est e dal sud-est Europa.

E in pochi anni i negozi di jeans sono stati sostituiti da quelli cinesi e le strade del Borgo Teresiano sono segnate dalle lanterne rosse.

Ecco, la vera questione oggi è prendere consapevolezza di un mondo che è cambiato e quindi adeguare alle novità le idee e i progetti per il futuro della città. Cosa ne farà Trieste allora del confine? Sarà anch'esso uno dei miti che caratterizzano la visione della città che i suoi stessi abitanti hanno? Infatti troppo spesso Trieste per i triestini vive e sopravvive per i suoi miti, primo fra tutti, e forse ancora il più resistente, l'essere stata una grande città e un grande porto di un grande impero (quello austro-ungarico).

La storia da queste parti continua ad essere elemento usato per esaltare lo spirito eroico e nazionale della città, sia nei successi che nelle ferite, città che però in quello spirito continua a specchiarsi con lo sguardo sempre troppo rivolto al passato. E tra poche settimane grandi festeggiamenti ci ricorderanno i 90 anni passati dalla vittoria del 1918. I preparativi fanno presagire cerimonie che porranno molta enfasi sull'esaltazione dell'irredentismo e del sentimento nazionale italiano di Trieste. Cosa che in fondo sta in un dato naturale della città, che negli eventi storici del '900 ha voluto fortemente l'Italia, e quindi sente profondo questo sentimento. Il problema però è che spesso la memoria viene utilizzata in modo strumentale nelle relazioni del presente.

A Trieste la storia fa fatica a essere storia. Spesso è mito, troppo spesso ancora è rito. Se il passato si facesse storia in questa terra, Trieste potrebbe fare un passo avanti. E Trieste potrebbe pensare, senza paure, di essere sempre una città di confine, con i problemi che questo comporta ma soprattutto con le opportunità che crea. Il consegnare alla storia i fatti anche tragici del '900 non significa negarli o sottovalutarli, ma, appunto, affrontarli nella loro giusta dimensione. E, ad esempio, la tragedia dell'esodo di istriani, fiumani e dalmati potrebbe avere il giusto riconoscimento morale da tutta Trieste, oppure si potrebbero affrontare le ferite inflitte alle diverse comunità del confine dai diversi regimi autoritari, senza che si continui a far ricadere sulle persone del presente i drammi del passato.

Eppure Trieste preferisce spesso continuare a pensare ai propri miti. E pur riconoscendo a parole che la caduta del confine apre le porte ad una nuova fase storica per la città, i confini immateriali si mantengono, e nelle menti persiste quel "gioco" contraddittorio dei mondi vicini e lontani. E così assistiamo alla mancata collaborazione dei porti, alla mancata relazione tra i Comuni di Trieste e Capodistria, ma anche tra Trieste e Sesana (l'unico comune territorialmente confinario col comune di Trieste) , alle difficoltà a legare città e entroterra del Carso e le comunità che ci vivono, a riconoscere la pluralità linguistiche e culturali (la storia dello scrittore Boris Pahor è un simbolo in questo senso).

Allora tra i miti e i riti di confine Trieste deve ancora trovare un suo ruolo nuovo, una dimensione diversa dall'essere confine di contrapposizione. Tutti hanno la propria storia, i propri ricordi, le memorie, ma anche la propria quotidianità che crea ancora vicinanza o lontananza. Il confine ora è caduto e Trieste dovrebbe sforzarsi di essere una città di confine che guarda avanti, che sa fare delle storie personali una storia collettiva.


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