Una conversazione con Xavier Bougarel, balcanologo, ricercatore presso il CNRS di Parigi. L’autore descrive la pluralizzazione dell’Islam nei Balcani dopo il 1990, l’azione nella regione di organizzazioni umanitarie e di missionari provenienti da paesi arabi, e l’influenza dei movimenti neo salafisti
Osservatorio sui Balcani: Con particolare riferimento ai casi della Bosnia Erzegovina e del Kosovo, quali sono secondo lei gli elementi che diversificano di più l'Islam balcanico di oggi rispetto a quello della situazione ante-bellica?
Xavier Bougarel: In primo luogo, non sono certo che le situazioni in Bosnia Erzegovina e Kosovo siano simili: basta solo paragonare il funerale di Alija Izetbegovic nel 2003 con quello recente di Ibrahim Rugova per rendersi conto delle differenze.
Il funerale di Izetbegovic si è caratterizzato per una forte dimensione religiosa, mentre quello di Rugova non ne ha avuta alcuna, e su quest’ultimo ci sono state anche delle speculazioni circa una sua segreta conversione al Cattolicesimo. Ciò premesso, ritengo che si debbano considerare diversi livelli di analisi. Per quanto attiene al primo livello, ciò che accomuna bosgnacchi, albanesi del Kosovo – essendo il 95% di loro denominati musulmani – e gli altri musulmani dei Balcani è la rottura, prodottasi negli ultimi decenni, con il precedente status di minoranze religiose non-governative e la loro trasformazione in nazioni richiedenti apertamente il diritto alla sovranità politica ed all’indipendenza o in minoranze nazionali che si identificano senza ambiguità con gli Stati-nazione confinanti. La creazione, agli inizi degli anni Novanta, di partiti politici rappresentanti questi gruppi o la creazione dell’Esercito bosniaco nel 1992 e dell’Esercito di liberazione del Kosovo nel 1998, sono chiari segnali di tale processo di politicizzazione.
E, ancora una volta, i funerali di Izetbegovic e Rugova illustrano molto bene questo cambiamento: il solo punto che hanno in comune è la dimensione militaristica che può anche essere percepita, in entrambi i casi, come un’inconscia e paradossale imitazione dei funerali di Tito. L’eccezione alla regola è rappresentata invece dall’Albania: le autorità governative di questo Paese, creato nel 1912 e già con una maggioranza musulmana (circa il 70% della popolazione totale), hanno sempre cercato di contenere o sradicare le divisioni religiose. Al giorno d’oggi, non ci sono partiti politici che intendono rappresentare i musulmani, mentre le divisioni religiose giocano un ruolo nella vita politica soltanto nella misura in cui si sovrappongono ad altre divisioni come quelle di ordine regionale o famigliare. Questa considerazione ci porta ad un secondo livello di analisi, dal quale emerge che il modo in cui l’identità religiosa si articola con l’identità nazionale non è lo stesso nel caso dei bosgnacchi, che utilizzano l’Islam per differenziarsi dai serbi e dai croati; nel caso degli albanesi, che si considerano una nazione omogenea a prescindere dalla loro diversità religiosa; e nel caso dei turchi bulgari o greci, che pongono una particolare enfasi su questioni linguistiche, si identificano con la Turchia kemalista ma utilizzano l’Islam per assimilare piccoli gruppi etnici musulmani quali i rom e i pomachi slavofoni.
In che misura è possibile sostenere che vi sia stata una reale radicalizzazione dell’islam nei Balcani e quanto invece ritiene che una lettura di questo tipo rientri in un paradigma strumentale alla visione delle relazioni internazionali attualmente dominante?
Qui giungiamo ad un terzo livello di analisi, che riguarda più l’Islam in quanto tale. Come già menzionato, il modo in cui l’Islam si articola con l’identità nazionale non è lo stesso per bosgnacchi, albanesi in Albania, albanesi in Kosovo ed in Macedonia, turchi in Bulgaria e Grecia ecc. Ciononostante, dal collasso dei regimi comunisti nel 1990 in poi abbiamo assistito alla nascita di due grandi processi. Il primo riguarda il numero crescente di letture in chiave “Islamo-nazionalistica” della cultura e della storia musulmana: un processo che, con la cosiddetta “sintesi turco-islamica”, è presente anche nella stessa Turchia. Il secondo riguarda invece l’arrivo nei Balcani, in seguito all’apertura delle frontiere e della mobilitazione internazionale per la Bosnia, di diversi attori governativi e non-governativi provenienti dal mondo musulmano. Al giorno d’oggi, le letture in chiave “islamo-nazionalistica” dell’identità nazionale bosniaca sono piuttosto influenti, posto che il maggiore partito nazionalista bosgnacco, il Partito dell’Azione Democratica (SDA), è stato creato da attivisti islamici, e che sia lo SDA che le istituzioni religiose islamiche hanno utilizzato la guerra per “reislamizzare” l’identità collettiva dei musulmani bosniaci. Questi tentativi di reislamizzazione autoritaria hanno tuttavia incontrato la resistenza della società bosniaca, specialmente nei casi in cui le istituzioni religiose hanno cercato di interferire con questioni private quali i matrimoni misti o il consumo di alcol. Le tesi “islamo-nazionaliste” sono piuttosto marginali nel caso albanese, ma il fatto stesso che siano presenti costituisce un fatto nuovo e significativo, come Nathalie Clayer ha illustrato nei suoi lavori sull’identità nazionale albanese. Questo avvicinamento all’Islam ed al nazionalismo non implica tuttavia una radicalizzazione dell’Islam in generale, ma piuttosto una radicalizzazione dell’Islam da parte di alcuni attori nazionali radicali. Dovremmo inoltre considerare che i nazionalisti più estremisti non sono sempre quelli caratterizzati dal maggior integralismo religioso, specialmente nel caso albanese. In ogni caso, questa realtà non riguarda soltanto i musulmani dei Balcani, ed il successo elettorale di Hamas, ad esempio, riflette innanzitutto alcune trasformazioni profonde prodottesi all’interno del nazionalismo palestinese. Ciò considerato, tutti i paradigmi basati sulla “radicalizzazione” dell’Islam ed il suo inevitabile confronto con un “Ovest” ugualmente indefinito e fantasmagorico sono assolutamente sbagliati e pericolosi.
In che misura ritiene che le attività di militanti o "missionari" durante le guerre, e delle organizzazioni caritatevoli provenienti dal mondo arabo nei dopoguerra, abbiano contribuito a rafforzare l’Islam nei Balcani?
Organizzazioni non governative (ONG) e mujaheddini islamici hanno giocato un ruolo importante agli inizi degli anni Novanta: a quell’epoca, alcune migliaia di combattenti ed “agenti umanitari” sono arrivati in Bosnia, sono riusciti a reclutare seguaci locali, sia all’interno delle istituzioni religiose che fra i giovani soldati bosgnacchi, ed hanno chiaramente contribuito allo sviluppo di un nuovo tipo di Islam che molti, sia nei Balcani che in Occidente, chiamano “Wahabismo”, ma che dovrebbe essere più propriamente definito “neo-Salafismo”. Tuttavia, il neo-Salafismo resta, in generale, piuttosto marginale nei Balcani, e la sua importanza è stata grossolanamente enfatizzata dai media locali ed occidentali, a causa di un misto di ignoranza, sensazionalismo e genuina propaganda. Molti dei conflitti religiosi che vengono dipinti come una lotta tra “secolaristi” e “wahabiti” sono in realtà legati a fazionalismi politici o regionali, o ancora all'accaparramento di risorse finanziarie. La presenza del neo-Salafismo nei Balcani deve essere dunque osservata anche da questo punto di vista. Da un lato, i neo-Salafisti non sono assolutamente i soli attori religiosi che si sono stabiliti nei Balcani dopo il 1990: i movimenti neo-Sufi originari della Turchia o dell’Europa occidentale, ad esempio, stanno diventando sempre più influenti fra la gioventù colta. D’altro lato, i neo-Salafisti non sono mai riusciti ad ottenere il controllo delle istituzioni islamiche religiose ma hanno piuttosto sostenuto piccole fazioni locali o organizzazioni giovanili e creato molti problemi tra i credenti. Da questo punto di vista, è difficile dire se abbiano effettivamente rafforzato o indebolito l’Islam nei Balcani. La valutazione più neutra e probabilmente più scrupolosa sarebbe affermare che hanno contribuito a trasformarlo. Alla fine degli anni Novanta, la maggior parte dei mujaheddini hanno lasciato la Bosnia per la Cecenia o per il Kosovo, le istituzioni religiose islamiche e le autorità governative nei Balcani hanno rafforzato la loro supervisione sulle ONG islamiche straniere, e l’11 settembre ha ovviamente posto i neo-salafisti in una posizione molto più precaria. In sintesi, direi che dal 1990 in poi l’Islam dei Balcani ha subito una pluralizzazione piuttosto che una radicalizzazione. La comparsa di fazioni neo-salafite e di movimenti nei Balcani non è altro che un aspetto di questo ampio processo.
Quanto la costruzione di moschee e luoghi di culto che, anche dal punto di vista architettonico, si allontanano molto dalla tradizione precedente, mutuata dall'esperienza ottomana, sta modificando i caratteri dell'Islam nei Balcani?
In primo luogo, dovremmo chiederci perché non c’è continuità tra le moschee “tradizionali”, eredità del periodo ottomano, e le moschee “nuove”. La risposta è piuttosto semplice: nel periodo post-ottomano, molti edifici religiosi ottomani sono stati distrutti ed al contempo alle comunità musulmane locali non è stato permesso di costruire nuove moschee. L’eccezione alla regola è costituita dalla Jugoslavia, dove molte nuove moschee sono state costruite in aree rurali negli anni Settanta ed Ottanta. Queste moschee rurali presentavano già alcune caratteristiche architettoniche tipiche del periodo post-comunista, tra le quali minareti più alti, il che riflette semplicemente la crescente competizione simbolica fra comunità etnico-religiose. Inoltre, bisognerebbe tenere presente che la costruzione di nuove moschee rurali – e chiese! – è stata possibile grazie alle rimesse della diaspora in Occidente. Influenze della diaspora sono anche evidenti nel caso della moschea di Zagabria, che è stata inaugurata nel 1987 e che costituisce il primo esempio di queste “nuove” moschee: la costruzione della moschea di Zagabria è stata ampiamente finanziata dai Paesi arabi, ma l’architetto era jugoslavo ed il concetto della moschea di Zagabria è stato mutuato… dal Centro culturale turco-islamico tedesco.
Al giorno d’oggi, la differenza è che le moschee sono state sistematicamente distrutte in alcune parti della Bosnia Erzegovina, mentre queste “nuove” moschee sono presenti in tutti i Balcani, incluse le periferie urbane che erano state precedentemente private di qualsiasi edificio religioso. In entrambi i casi, la volontà è di sottolineare la fine del periodo comunista, il carattere etnico del territorio – specialmente per quanto riguarda la Bosnia ed il Kosovo post-bellici - ed il prestigio dei Paesi musulmani sponsorizzanti il progetto. Non è di mia competenza esprimermi circa il valore estetico di queste moschee spesso ostentate, ma desidererei invece porre l’accento su due punti. In primo luogo, i musulmani dei Balcani e le moschee balcaniche non vogliono soddisfare la ricerca da parte di turisti occidentali, attivisti o etnografi, di autentiche “tracce” della vita ottomana e, a questo proposito, ritengo che queste “nuove” moschee non rappresentino meno i desideri dei musulmani di oggi rispetto a, per così dire, il “nuovo vecchio ponte” di Mostar. In secondo luogo, ciò che conta veramente non è tanto l’aspetto di queste moschee, ma quello che vi succede all’interno. La moschea di Zagabria non ha rappresentato una rivoluzione soltanto visiva ma anche concettuale, dato che comprende aule, una biblioteca, un ristorante ecc. Molte delle “nuove” moschee sono state concepite come centri culturali in cui si svolgono diverse attività didattiche e ricreative. In questo modo, esse tendono a sostituire se stesse a causa del collasso delle infrastrutture e dei servizi statali, e questo è quello che ritengo essere il punto più problematico a proposito di queste moschee. Ad ogni modo, non bisogna dimenticare che i centri culturali islamici che sviluppano queste attività didattiche e ricreative per i propositi più dubbi sono, molto spesso, appena percepibili dall’esterno.
(1 - continua)
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