Neo-salafismo, minaccia wahabita, l’Islam “tradizionalmente tollerante” dei Balcani è sempre più in discussione? E poi: esiste veramente un Islam europeo? Un'intervista con Xavier Bougarel e Nathalie Clayer
(Articolo tratto da Le Courrier des Balkans, pubblicato il 19 luglio 2013)
Nel vostro libro inquadrate la pratica dell'Islam nei Balcani nel più ampio contesto del mondo musulmano. Non vi sono a vostro avviso caratteristiche specifiche di un “Islam balcanico”?
Nathalie Clayer: Vi sono, ma ci è sembrato importante adottare allo stesso tempo una profondità storica ed una focale più ampia in modo da contribuire al dibattito con nuove chiavi di comprensione. Ad esempio, nell'analisi dei rapporti tra stato ed Islam nei Balcani è necessario considerare il lungo processo di costruzione delle minoranze musulmane in seno agli stati nazione che si sono formati nel corso del 19mo e agli inizi del 20mo secolo.
Il trattato di Berlino del 1878 porta le prime garanzie a favore delle minoranze musulmane in paesi a maggioranza cristiana. A partire da allora le legislazioni si occupano di questioni legate al culto, al funzionamento delle istituzioni religiose, di educazione, diritti di proprietà, anche se esistono poi degli scarti su come queste politiche sono applicate sul terreno e interpretate dai loro protagonisti a livello locale.
Dopo la Prima guerra mondiale il termine minoranza viene consacrato dei trattati di pace. Le continuità e le fratture nei fenomeni migratori che colpiscono duramente le popolazioni musulmane balcaniche non possono essere comprese se non ritornando agli inizi del 19mo secolo. Si può così notare una continuità del fenomeno della migrazione verso l'Impero ottomano, e poi verso la Turchia. Ad eccezione che in Bosnia a partire dal 1918 e in Albania a partire dagli anni '20. In questi paesi comincia infatti in quel periodo un'emigrazione economica verso ovest che anticipa la partenza dei Gastarbeiter dalla Jugoslavia a partire dagli anni '60.
Per quanto riguarda l'inserimento nel contesto del più ampio mondo musulmano, è necessaria per comprendere, non solamente queste migrazioni verso al Turchia ma anche la circolazione delle diverse correnti di pensiero islamico che hanno sempre “irrigato” un Islam balcanico diverso e cangiante. Se c'è una specificità dell'Islam balcanico questa è nel rapporto di forza tra queste correnti di pensiero, nel loro adattarsi alle realtà locali siano esse politiche, sociali, culturali.
Si parla spesso di un “Islam europeo”... Questo concetto non è recente, ma si è formato nel 19mo secolo...
N.C.: L’idea di un Islam europeo effettivamente non è nuova. Come costruzione intellettuale la si vede comparire nel 19mo secolo presso i viaggiatori europei che attraversano la parte europea dell'Impero ottomano e sviluppano dei discorsi dove si differenziano i musulmani di lingua slava o albanese da quelli turcofoni, che definiscono più legati all'Asia. Di conseguenza, i musulmani che vengono invece giudicati autoctoni in base alla loro lingua, vengono considerati europei.
E la loro pratica dell'Islam viene o considerata incompatibile con il loro essere europei (e si propone allora la loro (ri)conversione al cristianesimo) oppure si sottolinea la differenza con l'Islam praticato dai turchi. Nel caso albanese ad esempio si insiste sull'appartenenza alla confraternita dei Bektashi alla quale però non aderiscono tutti i musulmani albanesi. Quest'approccio verrà poi ripreso da quegli studiosi di Albania il cui obiettivo era legittimare l'esistenza di una nazione albanese in Europa per evitare la sua divisione tra stati vicini dopo la caduta dell'Impero ottomano.
L'idea di un Islam europeo emerge anche tra le due guerre mondiali presso alcuni intellettuali musulmani che intendono riformare l'Islam (il suo sistema educativo, il funzionamento delle istituzioni comunitarie etc.) e dare alle comunità musulmane i mezzi per elevarsi all'altezza delle popolazioni cristiane circostanti e dei “paesi civilizzati”, riprendendo la terminologia da loro stessi utilizzata.
Il tema dell'Islam europeo è stato ripreso in questi ultimi anni, in particolare in Bosnia Erzegovina. Voi però tendete a sottolineare piuttosto la “modernizzazione” che è stata condotta nel quadro delle società socialiste. Questa modernizzazione non è ora messa in dubbio?
Xavier Bougarel: Non credo. All'epoca socialista le società balcaniche hanno conosciuto cambiamenti rapidi e profondi, con l'urbanizzazione, la crescita del livello scolastico, la trasformazione del ruolo delle donne, l'emergere di una società dei consumi e dei divertimenti. Ora queste tendenze non sono rimesse in questione, malgrado esistano una povertà e una precarietà economica rilevanti.
Allo stesso tempo il pluralismo politico si è ben radicato e la circolazione di beni, persone e idee si è intensificata. Questo è vero anche per paesi come la Bosnia Erzegovina.
Quello che è importante comprendere è che l'Islam oggi nei Balcani non è la continuazione di una supposta tradizione immutabile proveniente dai secoli scorsi ma piuttosto il risultato delle trasformazioni legate, in gran parte, alla modernizzazione dell'epoca socialista: la secolarizzazione autoritaria delle società balcaniche ha espulso la religione dallo spazio pubblico, indebolito le istituzioni religiose, fatto diminuire la pratica religiosa.
Allo stesso tempo l'Islam balcanico non può essere compreso senza tener conto dei cambiamenti degli ultimi 20 anni: le rinnovate libertà religiose, la politicizzazione delle popolazioni musulmane, lo sviluppo di scambi con il mondo musulmano e l'avvento di internet. Alcuni parlano di modernità, altri di post-modernità ma ciò che è chiaro è che non siamo ripartiti verso il passato.
Il solo paese in cui una corrente panislamista ha una storia di lunga data è chiaramente la Bosnia: qual è l'influenza di questa corrente ai giorni nostri considerando che le sue relazioni con l'SDA (partito etnico bosgnacco in Bosnia Ezegovina, ndt) e con le autorità religiose sono andate complicandosi negli ultimi anni? Questa corrente ha degli appoggi al di fuori della Bosnia?
La corrente panislamista in Bosnia Erzegovina, le cui origini datano negli anni '40 del secolo scorso, è stata egemonica nella prima metà degli anni '90 in seno alla comunità bosgnacca: la corrente panislamista controllava il Partito per l'azione democratica (SDA), grazie al carisma di Alija Izetbegović e alla capacità di ottenere l'aiuto materiale del mondo musulmano e l'SDA controllava gli apparati statali nelle aree sotto controllo bosgnacco.
Dopo gli Accordi di Dayton del 1995 le pressioni internazionali contro questa corrente si sono accresciute, come dimostrato dalla lotta degli Stati uniti contro l'influenza iraniana nel paese e le sanzioni comminate dall'Alto Rappresentante contro alcuni dirigenti dell'SDA . Allo stesso tempo numerosi quadri ex-comunisti hanno iniziato a salire le gerarchie nell'apparato del partito. La morte di Izetbegović nel 2003 ha terminato l'opera di indebolimento della corrente panislamista che non è ormai più di una fazione tra le altre in seno all'SDA. Alcuni dei suoi membri hanno per questo lasciato il partito per creare piccoli partiti islamisti.
I libri di Izetbegović sono tradotti in albanese e in turco e esistono contatti tra panislamisti bosniaci e attivisti religiosi albanesi e turchi, ma al di fuori della Bosnia Erzegovina non penso si possa parlare di alcuna corrente organizzata.
Nel libro fate una distinzione tra il neo-salafismo jihadista e il neo-salafismo pietista. Quale la situazione in Macedonia a questo proposito dove le autorità religiose, nello specifico l'ulema Sulejman Rexhepi, denunciano il rischio “wahabismo”?
N.C.: E' importante distinguere queste due tendenze, la prima minoritaria rispetto alla seconda e a sua volta quest'ultima minoritaria rispetto al resto dei musulmani del sud-est Europa.
La prima tendenza implica un impegno violento e armato, la seconda no. Occorre sottolineare che non sono questi termini ad essere utilizzati sul terreno o nei media. Si preferisce il termine “wahabismo”, che è improprio, perché quest'ultimo fa riferimento ad una corrente specifica del salafismo fondata in Arabia nel corso del 18mo secolo.
Anche se le due tendenze hanno una genealogia simile e condividono l'idea di purificare l'Islam, le correnti neo-salafite attuali non si rifanno a Muhammad Ibn Abd al-Wahhab.
Il termine wahabita è quindi spesso utilizzato per delegittimare e condannare le correnti avversarie sulla scena religiosa. Nello specifico nel caso della Macedonia i neo-salafiti di tipo pietista che si oppongono alla tendenza jihadista per questioni religiose ma soprattutto per questioni più pragmatiche (gestione dei beni delle waqf che le istituzioni islamiche sono riuscite a recuperare, attribuzioni di incarichi in seno alle istituzioni, etc) sono tacciati spesso di “wahabismo”.
Qual è il peso delle correnti radicali, come ad esempio quella di Gornja Maoča in Bosnia? O dei neo-salafiti in Kosovo?
X.B: I neo-salafiti di Gornja Maoča che si raggruppano attorno a Nusret Imamović, fanno parte della frangia più radicale del movimento jihadista, perché non riconoscono alcuna autorità allo stato bosniaco e praticano l'hijra, l’esilio volontario da una società considerata non pia, il che è attestato dal loro essersi isolati nel villaggio di Gornja Maoča.
Ma la loro deriva settaria non può attirare che un numero limitato di adepti, in rottura con il loro ambiente famigliare e sociale. Anche all'interno del movimento jihadista sono minoritari, perché la maggioranza degli jihadisti bosniaci hanno un'attitudine legalista, anche solo per questioni tattiche. Ma vi sono altri gruppi di questo tipo, tra i quali il più famoso non è in Bosnia Erzegovina ma a Vienna, in Austria, raggruppato attorno all'Imam Muhamed Porča.
La guerra in Siria può rappresentare un'occasione per rafforzare e rinsaldare le reti neo-salafite jihadiste?
X.B.: Confesso di non aver seguito da vicino le reazioni alla crisi siriana, ma non è certo la partenza (e il ritorno) di una qualche decina di jihadisti che va a mutare la situazione. E neppure in seno al movimento jihadista: nel 2003, ai tempi dell'intervento americano in Iraq, il movimento si è diviso sull'opportunità per i musulmani balcanici di andare a fare la guerra santa contro gli americani.
Più in generale credo che questa questione sia l'albero che nasconde la foresta. Sono persuaso che i sommovimenti che caratterizzano il mondo arabo da qualche anno avranno un impatto sui musulmani dei Balcani, anche se è difficile dire quale. Per un aspetto i paesi arabi stanno facendo esperienze di democrazia: a seconda di come queste esperienze si svilupperanno, si svilupperà anche il loro impatto sui rapporti tra Islam e politica, e sia l'Islam che la democrazia cambieranno.
E queste idee nuove, attraverso gli studenti iscritti nelle università arabe, attraverso le pubblicazioni religiose, internet, arriveranno anche nei Balcani. Inoltre, in Tunisia, Egitto, Turchia, in circostanze diverse, partiti islamisti stanno facendo esperienze al potere: ne usciranno rafforzati o indeboliti? Radicalizzati o ammorbiditi? I legami tra religione e politica ne risulteranno più tesi o rasserenati? Ecco, nel medio termine, la vera questione che peserà sui rapporti tra il mondo arabo e i musulmani balcanici.
Avete nominato relativamente poco le diaspore musulmane dei Balcani. Come vivono la loro fede nei paesi di accoglienza? Giocano un ruolo mediatore tra le pratiche esogene scoperte nei paesi d'accoglienza e quelle dei Balcani? Vi sono evoluzioni temporali e generazionali, per esempio tra i lavoratori emigrati negli anni '60 e i giovani bosniaci o kosovari scacciati dalla guerra degli anni '90?
X.B.: Il problema fondamentale per le diaspore musulmane originarie dei Balcani, che sono delle diaspore relativamente recenti, è di dotarsi di infrastrutture e quadri che permettano loro di praticare la propria religione. E' un processo in corso, che implicherà tempo. L'altro problema è di inserirsi nella comunità più ampia dei musulmani del paese d'accoglienza. Ad eccezione di alcuni paesi come il Lussemburgo, la Svizzera o il Belgio, i musulmani balcanici pesano poco rispetto ai musulmani originari di Turchia, Africa o sub-continente indiano.
E poi c'è la volontà di essere identificati come “musulmani europei”, in contrasto con quelli “non-europei”. Nei fatti i musulmani balcanici influiscono poco sulle evoluzioni generali dell'Islam in Europa occidentale e sembrano ripiegati su loro stessi. I soli iscritti in un universo transnazionale sono i giovani che si sono uniti al movimento neo-salafita: sono poco numerosi ma a volte molto radicali.
Tra le persone arrestate per terrorismo in Bosnia Erzegovina in questi ultimi anni, un buon numero faceva parte della diaspora. Vi sono due ragioni principali: una traiettoria personale e famigliare segnata dalla violenza della guerra e dall'esilio e una perdita di riferimenti culturali e religiosi che incide di più rispetto ai giovani rimasti nel paese.
Nel libro sottolineate il ruolo giocato dalla Direzione affari religiosi della Turchia, il Diyanet İşleri Başkanlığı: come definirlo? Si è rinforzato nel corso dell'ultimo periodo? Ha una visione strategica sui Balcani?
N.C.: Il Diyanet è stato molto presente nei Balcani dopo la caduta dei regimi comunisti (lo era già stato anche in Grecia). Potremmo definire il suo ruolo come quello di un'istituzione che mira ad essere “istituzione-sorella” o “grande-sorella” delle istituzioni islamiche locali.
Negli anni '90 ha anche provato a integrare queste istituzioni in un'Assemblea islamica euroasiatica. Nel 2007 è stata promotrice della creazione di un Consiglio islamico balcanico. In alcuni casi, i legami sono divenuti ancor più stretti, come in Bulgaria, dove si è presa in carico l'insegnamento in scuole islamiche locali.
Se ha una visione strategica, questa dipende strettamente dagli andamenti della politica estera turca rispetto alla religione. Non dimentichiamo che il Dyanet dipende direttamente dal primo ministro turco.
Avete riferito di tensioni tra Mustafa Cerić e il Diyanet: come sono evolute?
X.B.: Non so se si può parlare di tensioni o di appartenenza a reti differenti. Quando ha ricoperto il ruolo di Reis-ul-ulema, Mustafa Cerić ha intrattenuto relazioni regolari con il Dyanet ed ha invitato più volte il suo presidente in Bosnia Erzegovina e fatto in quelle occasioni gli elogi dei legami tra i bosgnacchi e la Turchia.
Ma Mustafa Cerić non ha permesso che la Comunità islamica bosniaca fosse posta sotto la tutela del Diyanet, come avvenuto in Bulgaria.
In particolare Mustafa Cerić si è mostrato vicino alle reti dei Fratelli musulmani in Europa e prende parte dal 1997 al Consiglio europeo per le Fatwa e la Ricerca. Ma le cose saranno sicuramente destinate a cambiare: oltre al fatto che vi è un nuovo Reis-ul-ulema in Bosnia Erzegovina, i rapporti tra il Diyanet e gli islamisti al potere in Turchia stanno evolvendo e, in termini più generali, le reti islamiche turche giocano un ruolo sempre più importante tra le popolazioni musulmane dei Balcani.
E il Movimento Fethullah Gülen gioca un ruolo specifico? E' complementare o piuttosto concorrente del Diyanet?
N.C.: Il movimento dei cosiddetti fethullahci agisce diversamente rispetto al Diyanet, perché è attivo anche in altri campi rispetto a quello religioso: nel settore dell'educazione non religiosa e nell'economia. Come altrove, hanno fondato anche in tutti i Balcani scuole che hanno l'obiettivo di formare le future élites. In questo senso sono complementari al Diyanet. La loro azione in campo religioso è solitamente più sottile e indiretta. Ciononostante in Albania sono riusciti a controllare la maggior parte delle madrasse perché le istituzioni islamiche locali si sono appoggiate a loro per sfuggire all'influenza delle reti islamiche arabe.
Se si considera il campo degli attori religiosi turchi (tra le quali si trovano anche i Süleymanci), è difficile distinguere le dinamiche di collaborazione da quelle di competizione che esistono tra loro nelle varie situazioni.
Scrivete che “l'ostilità al sufismo è un fenomeno ricorrente nell'Europa del sud-est”. Perché?
N.C.: Effettivamente i neo-salafiti non sono i primi ad adottare un'attitudine ostile al sufismo nell'Europa del sud-est come altrove.
All'epoca ottomana , nel 16mo secolo, lo sceicco (quindi un sufi lui stesso) Muslihuddin Nureddin-zade, nato nella regione di Filibe/Plovdiv, attaccò i sufi considerati come deviati. Nel 17mo secolo il movimento dei Kadizadelis, molto anti-sufi, si è sviluppato nell'intero Impero ottomano, compresa la penisola balcanica. Si sa anche che vi erano ancora suoi rappresentanti in Bosnia Erzegovina nel 18mo secolo.
L'esempio di Muslihuddin Nureddin-zade però ci mostra che sarebbe sbagliato mettere in opposizione gli ulemà ai sufi, solo a livello di dottrina e di pratiche. Non si può escludere che in questi contrasti non vi fossero anche motivi economici e sociopolitici. L'ostilità al sufismo può essere soprattutto un'ostilità alle sue forme di confraternita nel seno degli ordini dei dervisci e meno al sufismo in quanto dottrina.
In un contesto di individualizzazione della fede e della pratica religiosa, che spazio possono ancora avere gli ordini dei dervisci? Sono ormai “superati” o sapranno adattarsi?
N.C.: Da alcune decine di anni si prevede la fine degli ordini dei dervisci di fronte alla modernità. Ma loro resistono, anche in paesi dove le loro organizzazioni erano state vietate durante il periodo comunista (o in Turchia, dove sono state vietate nel 1925).
Le confraternite mistiche musulmane esistono in quanto tali dal 13mo secolo. Il loro funzionamento e il loro inserimento nella società sono andate mutando nel tempo. Nel 20mo secolo, in Turchia, alcuni cambiamenti hanno portato ad organizzazioni un po' differenti dal passato e le si può considerare delle neo-confraternite, nelle quali i rituali sono differenti come differenti sono le relazioni tra maestri e discepoli: sono i movimenti dei Nurcus, dei Fetullhaci e dei Süleymancis, tutti attivi attualmente nell'Europa del sud-est.
Le relazioni con queste confraternite, con le neo-confraternite o con il sufismo senza particolare affiliazione muta nei Balcani come altrove, adattandosi ai nuovi mezzi di comunicazione e all'individualismo della fede.
Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell'Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l'Europa all'Europa.
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