“Non ti ammazzano, non ti mettono in galera ma ti mettono una pressione tale da costringerti all’autocensura”. A colloquio con Bülent Mumay giornalista del quotidiano Hürriyet
L’intervista è stata realizzata durante la nona edizione del South East Europe Media Forum tenutosi a Bucarest il 5 e 6 novembre 2015
Ora che l’AKP ha vinto di nuovo le elezioni qual è la situazione dei media in Turchia?
Abbiamo gli stessi problemi di prima delle elezioni. In Turchia il giornalismo ha sempre sofferto di una situazione molto problematica. Si sa che ogni governo, in ogni paese, piccolo o grande che sia, cerca di controllare i media. Chi è al potere non desidera la critica dei media, perché non vuole perdere voti. In Turchia la situazione si è fatta più difficile negli ultimi 5-6 anni, in particolare dopo le elezioni del 2011 quando l’AKP ha stravinto. Da allora hanno cercato di esercitare sempre più pressione sui giornalisti.
Pensi che se al posto dell’AKP ci fosse per esempio il CHP, che oggi è all’opposizione, la situazione sarebbe migliore per il giornalismo in Turchia?
Non si tratta del partito che è al potere. In Turchia manca una solida tradizione democratica. Nei paesi democratici occidentali ci sono delle regole. Anche la Casa Bianca fa pressioni sul New York Times, ma lo fa in modo più “corretto”, non certo mettendo in carcere i giornalisti o comminando multe esagerate. Sei anni fa il Doğan Media Group per cui lavoro è stato multato per 3 miliardi di dollari , per presunte irregolarità fiscali. Alla fine siamo andati in tribunale e abbiamo pagato 1 miliardo di dollari.
Quanto sono importanti i social media in Turchia?
Basti pensare che pur non avendo il numero di abitanti dell’India riusciamo a batterla nell’uso dei social media. La gente in Turchia è veramente ossessionata dai social media, hanno un sacco di cose da dire, hanno bisogno di una piattaforma. Noi a dire il vero cerchiamo di non convogliare tutto il pubblico sui social media, preferiamo che la gente rimanga sul nostro sito web e sui nostri canali.
Però vedo che ogni giornalista ha molti di follower su Twitter per esempio. Basta vedere il tuo profilo con quasi 90mila follower…
E pensa che io non sono una persona famosa, sono semplicemente parte della macchina burocratica di questo gruppo, non sono un editorialista. Se guardi gli editorialisti, loro sì che hanno numeri incredibili di seguaci. Ahmet Hakan , l’editorialista di Hürriyet, ha quasi 4 milioni di follower su Twitter, molti di più dei lettori del nostro sito.
Come te lo spieghi?
In primo luogo perché la gente ha sempre il desiderio di avere un contatto diretto con le celebrità. In Turchia gli editorialisti sono come i profeti. E poi perché quando il paese si polarizza su certe questioni la gente ha bisogno di prendere una posizione, e quindi va in cerca della persona che è più vicina al proprio pensiero.
Durante la conferenza hai spiegato che il vostro giornale Hürriyet ha avviato un nuovo progetto per il pubblico, una piattaforma per le informazioni create dai lettori.
All’inizio, quando pensavamo al progetto non avevamo in mente questo, si trattava solo di coinvolgere di più il pubblico e i lettori sul nostro sito web. Ma quando abbiamo lanciato il portale sono scoppiate le proteste di Gezi Park. Così abbiamo usato questa piattaforma per dare la possibilità ai lettori di pubblicare i loro contenuti, una cosa molto simile ai social media.
Quali sono i problemi più gravi che i media turchi devono affrontare?
L’autocensura è sicuramente un grande male dei media turchi, ma il peggior problema e il più grosso è la pressione invisibile del governo, dei servizi segreti, dei militari. Se scrivi qualcosa di scomodo stai certo che la punizione arriverà. Non è detto che finisci in galera, ma magari il tuo direttore viene multato con 4 milioni di dollari per quello che hai scritto, oppure il tuo indirizzo di casa viene fatto circolare sui social media, così per minacciarti.
Due mesi fa siamo stati attaccati da un gruppo di persone. Hanno attaccato l’edificio del giornale per ben due volte. L’editorialista Ahmet Hakan è stato assalito da quattro persone, è finito all’ospedale con il naso rotto. E queste persone sono membri di un partito…. Quando hanno attaccato la seconda volta il nostro giornale ero nell’edificio, abbiamo chiamato la polizia, abbiamo detto che erano tornati, di sbrigarsi perché stavano sfasciando tutto. Be’ la polizia dista cinque minuti da Hürriyet ma è arrivata un’ora dopo.
È così che fanno: non ti ammazzano, non ti mettono in galera ma ti mettono una pressione tale da costringerti all’autocensura.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
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