Centinaia di docenti universitari in Turchia si trovano sotto processo, sono stati espulsi o licenziati per aver firmato una dichiarazione a favore della pace. Le pressioni subite li hanno portati a sviluppare nuove forme di resistenza e di solidarietà
“Ci sentiamo come ostaggi di una contrattazione. Ostaggi della realpolitik tra l’Europa e la Turchia”. È il commento amaro della docente universitaria Aslı Odman, su come gli stati europei si stanno comportando con la Turchia mentre le voci critiche si trovano in estrema difficoltà. Odman fa parte del gruppo degli Accademici per la pace (Barış için Akademisyenler, BAK) firmatari della dichiarazione “non diventeremo parte di questo crimine ”. Un testo sottoscritto nel gennaio 2016 da 1128 docenti delle università turche e internazionali, dopo la ripresa delle operazioni tra Ankara e PKK nelle province sud orientali a maggioranza curda.
Una dichiarazione che criticava duramente l’intervento armato dello stato, condannando le conseguenze mortali che questo stava avendo sulla popolazione locale. Il comunicato, diffuso sei mesi dopo l’interruzione del processo di pace durato quasi tre anni, lanciava al governo turco un appello per “ristabilire una pace duratura” e una road-map che includesse le richieste del movimento politico curdo.
L’iniziativa aveva immediatamente suscitato la reazione irata del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, il quale puntando il dito contro il “sedicente gruppo di accademici” li aveva definiti “una cattiva imitazione di [veri] intellettuali”. Dopo le parole del presidente altre figure politiche e media pro-governativi avevano accusato i docenti di “sostegno al terrorismo”, mentre per reazione, nuovi docenti si erano uniti all’appello, che aveva raggiunto i 2212 firmatari.
I processi
Ma l’accusa rivolta al gruppo si è ben presto tradotta in oltre 500 inchieste amministrative interne alle università, private e pubbliche. A oggi tra i 5822 universitari espulsi dalle università in forza dei decreti emanati dopo il tentato golpe del 15 luglio 2016, 386 fanno parte dei BAK. “I primi licenziamenti sono arrivati dalle università private prima del tentato golpe, poi sono seguite le espulsioni legate ai decreti emanati durante lo stato di emergenza”, spiega a OBCT la professoressa Odman, che insegna all’Università di Belle Arti Mimar Sinan a Istanbul.
Tutti gli accademici dovranno affrontare l’iter processuale. Finora almeno in 265 hanno sostenuto udienze . L’accusa per loro è quella di aver fatto propaganda a favore del PKK, ma ce ne sono anche altri che verranno processati per il reato di offesa all'identità turca.
Diversi giuristi hanno sottolineato l’incongruenza dei percorsi processuali differenti per ciascun firmatario, sebbene la dichiarazione sottoscritta sia identica per tutti. Per l’avvocato Ceren Uysal, tra i legali che hanno seguito la vicenda giudiziaria dei BAK, queste sentenze sono “frutto di decisioni arbitrarie” anche perché “secondo le leggi turche firmare una dichiarazione del genere non è un reato, e non solo secondo la normativa sull’anti-terrorismo ma anche secondo il codice penale”. Al contrario, “ogni singola frase di questo testo rientra nell’ambito della libertà d’espressione”, ha spiegato a OBCT l’avvocato.
Finora sono arrivati a conclusione solo pochi casi, ma senza alcuna assoluzione. Per la maggior parte dei casi c’è stata la sospensione della pena, in altri il “differimento dell'enunciazione della condanna”, una misura a cui le autorità fanno ricorso perché le prigioni sono strapiene, specifica Odman: “Secondo questo sistema l’imputato accetta la sentenza di primo grado, perdendo il diritto all’appello, ma evitando l’imprigionamento”. La professoressa Füsun Üstel, dell’Università Galatasaray, non ha accettato la propria colpevolezza per andare in appello . Se il tribunale di grado superiore, il cosiddetto Istinaf, non le riconoscerà l’innocenza rischierà il carcere.
“Tutto questo dimostra solo che in Turchia non esiste un meccanismo giuridico funzionante”, prosegue l’avvocato, e “le attività che oggi vengono definite come ‘processi’ in verità consistono in una messa in scena che prende forma a seconda della congiuntura politica. È inoltre evidente che gli esiti giuridici non sono più conseguenza del diritto positivo e dunque non sorprende che ci siano esiti disparati. Di fatto sono ormai le motivazioni personali di chi ha il potere decisionale (su sentenze o espulsioni) a essere determinanti”, aggiunge la giurista. “D’altronde in un clima politico dove sono stati espulsi circa 3000 giudici e magistrati, e altri 2000 si trovano in stato d’arresto non è possibile affermare che quelli in servizio sono liberi. Le loro decisioni saranno determinate da preoccupazioni-paure personali, non dalla legge”.
“Nessuno di noi si immaginava che la dichiarazione avrebbe prodotto queste conseguenze”, dice invece Odman. “Per quanto lo stato ora cerchi di trasformare questo appello nel prodotto di un crimine organizzato, la vera forza di questa iniziativa stava nel fatto che fosse un’azione spontanea e sviluppata in maniera individuale. Persino le persone afferenti ad uno stesso dipartimento non sapevano che i colleghi avevano firmato”, aggiunge la docente.
“Dopo Gezi Park e le elezioni del giugno 2015 per un periodo abbiamo creduto che molte cose si potessero trasformare in meglio, e che si potesse portare nel paese la pace sociale nella sua accezione più ampia. Il testo denunciava crimini contro l’umanità che lo stato stava commettendo attraverso le proprie forze di sicurezza nelle province curde. Ma allo stesso tempo era anche un grido che aveva sullo sfondo l’idea che qualcosa era improvvisamente precipitato proprio mentre stava per cambiare. Era un grido che racchiudeva le morti sul lavoro, la devastazione ambientale per i mega progetti in costruzione, lo sfruttamento del lavoro minorile, la condizione dei rifugiati, i diritti dei lavoratori e delle donne... Questo significato di pace più ampio di cui era portatore quel testo lo abbiamo compreso più tardi anche noi, quando abbiamo visto i nomi della lista, i licenziamenti, le espulsioni”.
Gli accademici non rinunciano all’insegnamento
Ma di fronte alle pressioni subite i BAK non sono rimasti con le mani in mano. Si sono invece organizzati in reti di solidarietà, costituendo anche delle nuove piattaforme per continuare ad insegnare. È così che da Istanbul ad Ankara, da Eskisehir a Izmir e Urfa sono nate le “accademie di solidarietà” . Lezioni svolte con regolarità dagli accademici espulsi in luoghi diversi dall'università e seguite da studenti, che come nel caso dell'Università di Ankara sono stati completamente privati dei propri docenti. Quella dei Kampüssüzler (i “senza campus”) è stata la prima iniziativa di questo tipo, seguita dalla scuola di Eskişehir e dalla Istanbul Dayanışma Akademisi .
“L’accademia di solidarietà di Kocaeli (Koda) è la prima tra queste ad aver acquisito una forma giuridica, costituendosi come associazione. A Mersin, invece, dove sono stati espulsi 21 accademici, è stata fondata “La casa della cultura” (Kültürhane). Questa volta si tratta di una caffetteria che al proprio interno ha costituito la seconda biblioteca pubblica più grande della città. “Questo perché 11 dei docenti espulsi hanno ottenuto borse per andare all’estero e alla partenza hanno donato le loro ricche biblioteche personali”, puntualizza Aslı Odman.
“Le espulsioni sono state effettuate su iniziativa dei rettori, che hanno scelto quali nomi comunicare alle autorità. È per questo che alcuni dei firmatari non hanno perso il posto”, spiega Odman. Alcune delle università migliori del paese come l’Università del Bosforo, la Mimar Sinan di Istanbul e la METU di Ankara, ognuno per un motivo diverso - ma soprattutto per la reputazione internazionale degli atenei - non hanno sacrificato i propri docenti, “anche se poi questo non essere stati espulsi ci viene continuamente ricordato, quasi a dirci di non combinare altri guai”, aggiunge Odman.
La docente afferma che a essere stati penalizzati maggiormente sono i colleghi delle province, quelli con meno mezzi e i più giovani. Ed è per questo che i BAK hanno formato delle piattaforme dove condividono gli stipendi, i contatti internazionali, le opinioni legali.
“Abbiamo anche avviato una catena telefonica di sostegno psicologico, purtroppo arrivato troppo tardi per Fatih Traş, collega di Adana morto suicida ”, dice la docente. “Essere riusciti a creare una simile rete di solidarietà in un ambito come quello universitario, dove spesso dominano gli egoismi, mi dà speranza. Non possiamo fare le valigie e andare via. Abbiamo stretto delle amicizie a cui non possiamo rinunciare”, afferma l’accademica.
Supporto estero
Una rete di supporto si è creata anche all’estero, a partire dalla diaspora di accademici turchi sparsi per il mondo da decenni. Ai quali si sono uniti i docenti emigrati recentemente, in Francia e soprattutto in Germania, a Berlino, dove è stata costituita un’associazione di sostegno ai BAK. Gli Accademici per la pace hanno preparato delle classifiche dove indicano i nomi dei colleghi maggiormente a rischio, cercando di trovare borse e privilegiare le partenze dei docenti delle province, quelli privi di legami con l’estero, o di mezzi economici. “Lo stato francese, per esempio, utilizza queste classifiche nell’assegnare le proprie borse. Altre organizzazioni sensibili al tema dei diritti umani ci supportano inviando osservatori alle udienze o facendo campagne”, spiega Odman.
Ma c’è anche l’altro lato della medaglia ed è la realpolitik tra l’Europa e la Turchia, che non aiuta per niente la situazione turca. “Ci sentiamo come ostaggi di una contrattazione”, dice Odman. “Ostaggi in mezzo allo sporco accordo sui rifugiati tra la Turchia e l’UE, o del mercanteggiamento di Parigi, che da una parte sigla accordi con Ankara per vendere airbus e costruire una centrale nucleare, mentre dall’altra cerca di mettere una buona parola per i giornalisti in carcere. E noi dei BAK non siamo certo i più penalizzati, perché riusciamo a far sentire la nostra voce. L’arresto di giornalisti, universitari e avvocati fa sempre più scalpore. Ma i nostri rapporti migliori si sono sviluppati con quanti anche dentro gli stati europei e le istituzioni UE formulano critiche contro le politiche opportunistiche manifestate da questi. Per il resto, purtroppo, vige una realpolitik che passerà alla storia come una profonda ferita”.
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