Una novella dai toni fortissimi che parla della Bosnia, della guerra, della difficoltà di voltare pagina dopo il conflitto. Una Bosnia estremamente vicina e al contempo lontana perché raccontata dagli esuli negli Stati Uniti. Una recensione di Michele Nardelli al nuovo libro di Miljenko Jergovic
"Buick Riviera" di Miljenko Jergovic è una novella di fortissima intensità, che ti parla della Bosnia pur essendo ambientata negli Stati Uniti e che ti bruci in una giornata in cui fuori fa freddo e non hai voglia di fare null'altro che leggere.
È però anche qualcosa di più. Che scava dentro le narrazioni di una guerra distante nel tempo e nello spazio, ma più che mai presente nel vissuto delle persone, forse ancor più in quelle emigrate che hanno interrotto la loro storia "voltando pagina". E nel conflitto non elaborato che si nutre di stereotipi e di fantasmi.
Sotto questo profilo l'incontro fra Vuko, ex miliziano serbo bosniaco, e Hasan, anche lui bosniaco ma mussulmano, negli Stati Uniti per sfuggire al "più bello e più triste posto al mondo", è di una rara forza descrittiva perché capace di indagare la psicologia sociale e la sottile complicità dei due protagonisti comunque diversi da "questi stronzi americani", visto che - in fondo - "vi era più odio in uno sguardo rivolto da suo suocero al portiere portoricano di tutto quello visto nelle guerre bosniache".
E basta il semplice racconto (e la reticenza al racconto) dei loro conflitti coniugali in una nevosa notte dell'Oregon per capire come fosse stato possibile che le persone d'improvviso si scannassero: "Ma certo, voi eravate per la fratellanza e l'unione, ma quel genere di fratellanza e unione per le quali tutti vi sono fratelli, ma voi non lo siete per nessuno. Non va bene così, amico. Né dal punto di vista biologico, né sociale. ... Io ti ho raccontato tutto, tu invece non mi hai raccontato niente. E adesso guarda cosa siamo l'uno per l'altro".
Così l'incontro fra due compaesani diviene l'affresco di un mondo, l'amore per una vecchia automobile americana la descrizione di quel "sogno di estero" degli jugovici di cui ci ha narrato Rada Ivekovic nel suo "Autopsia dei Balcani", la pace e il silenzio della locanda balcanica svuotata di vita dopo il passaggio dei riservisti per farci capire come la guerra possa essere festa "che forse gli aveva dato le migliori soddisfazioni", la campagna e la città nel pane spezzato con le mani o tagliato con il coltello, la differenza fra il basket e il calcio perché in quest'ultimo "ci sono pochi goal. E per questo gli americani non amano il calcio. Non riescono ad aspettare tanto a lungo...".
Immagini che ti raccontano della banalità del male e del paradosso di una vicinanza in bilico fra odio e amore, fra tradizione e modernità, fra tristezza e serenità perché "niente si accompagna meglio di queste due".
Sì, questa novella di Jergovic è qualcosa che ti fa entrare nell'intimo di tanti personaggi incontrati in questi anni di frequentazione balcanica e che ti fa capire quanto difficile sia "voltar pagina".
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