Trieste © Jack Krier/Shutterstock

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È appena uscito “La Jugoslavia e la questione di Trieste 1945-1954” di Federico Tenca Montini, edito da Il Mulino. Il volume, frutto dello studio attento degli archivi jugoslavi, ripercorre riflessioni e strategie della classe politica di Belgrado sulla questione di Trieste. Una recensione

09/10/2020 -  Stefano Lusa

(Originariamente pubblicato da Radio Capodistria l'8 ottobre 2020) 

È uscito l'8 ottobre in libreria “La Jugoslavia e la questione di Trieste 1945-1954” di Federico Tenca Montini, edito da il Mulino. La data non sembra casuale, visto che l’8 ottobre 1953, nella Dichiarazione Bipartita, inglesi e americani dichiararono di voler cedere l’amministrazione della Zona A all’Italia. Per la prima volta un ricercatore va ad indagare sulle riflessioni e sulle strategie della classe politica jugoslava.

Federico Tenca Montini ha fatto quello che Diego de Castro, auspicava venisse fatto da tempo: andare a scartabellare negli archivi jugoslavi. Il consigliere diplomatico del generale Winterton, ai tempi dell’occupazione militare alleata, negli anni Ottanta, ci aveva regalato quella che viene considerata ancor oggi la bibbia sulle vicende del confine orientale. Nella sua “Questione di Trieste” de Castro ricostruisce l’azione diplomatica italiana ed occidentale, quello che mancava era andare a vedere cosa ne pensassero gli jugoslavi. Federico Tenca Montini ci offre l’ultimo tassello dell’intricato puzzle, forse quello più importante, che porta in pochi anni a trasformare Trieste da baluardo a rottame della guerra fredda. Adesso non rimane che andare a vedere ancora cosa ne pensassero i sovietici, anche se dopo la rottura tra Tito e Stalin, i russi uscirono praticamente dalla partita.

Ne esce la riflessione di una classe dirigente ambiziosa, superba e molto preoccupata di farsi trattare alla pari dagli altri protagonisti della vicenda. Quello che appare chiaro, dallo studio di Tenca Montini, è che per gli jugoslavi Trieste era persa nel momento in cui le sue truppe furono costrette ad abbandonare la città nel giugno del 1945. Per raggiungere per primi il capoluogo giuliano i partigiani jugoslavi avevano subordinato ogni altro obiettivo, ma il colpo di mano alla fine fallì anche perché persino i sovietici consigliarono a Belgrado di venire a più miti consigli e ritirarsi in buon ordine. Una delusione amarissima, patita soprattutto dagli sloveni, tanto che il numero due del nascente regime, Edvard Kardelj commentò laconico che il popolo sloveno è “il primo in Europa al quale viene impedito di essere padrone sul proprio suolo”.

Soddisfatti, con il Trattato di pace, gli obiettivi nazionali croati in Istria a quel punto tutta la faccenda divenne più slovena che jugoslava, tanto che a trattare vennero messi molti preparatissimi funzionari di Lubiana che conoscevano palmo a palmo la regione e che soprattutto si impegnarono per difendere al meglio gli interessi nazionali sloveni. A conferma di ciò basti dire che sin da subito la tutela della minoranza slovena rimasta al di fuori dei confini nazionali divenne una delle questioni importanti nella trattativa.

Belgrado pensava di poter continuare a giocare un ruolo nella Zona A, l’area amministrata dalle truppe anglo americane, sia grazie alla propria minoranza presente in zona sia grazie agli italiani che simpatizzavano per il comunismo e che avrebbero visto di buon occhio un passaggio alla Jugoslavia. Il principale timore dell’epoca fu che l’amministrazione alleata fosse estesa anche alla Zona B, dove la Jugoslavia sin da subito impose le sue regole ed i suoi uomini controllando tutti i gangli del potere. Una questione questa che meriterebbe ulteriori analisi ed approfondimenti, soprattutto per capire quali furono le riflessioni che Belgrado, Lubiana e Zagabria fecero sull’estesa presenza di una popolazione italiana tendenzialmente ostile al nuovo regime ed all’annessione alla Jugoslavia.

Tenca Montini ripercorre - dialogando ampiamente con la storiografia italiana, croata, slovena ed internazionale - le vicende che hanno caratterizzato quegli anni. Prima la “luna nel pozzo” offerta dagli alleati all’Italia con la Dichiarazione tripartita, che avrebbe assegnato l’amministrazione dell’intero Territorio Libero di Trieste (che non venne mai costituito visti i veti incrociati sulla nomina del governatore) all’Italia e poi la successiva, quasi immediata rottura tra Mosca e Belgrado, che ribaltò completamente la situazione e trasformò la Jugoslavia in un prezioso alleato in funzione antisovietica.

A quel punto l’interesse dell’occidente fu quello di tenere Tito a galla, mentre l’Italia, era già diventata un alleato alquanto affidabile e senza grandi possibilità di scelta. La matassa quindi diviene intricata, potenzialmente esplosiva ed anche costosa per gli alleati che dovevano continuare ad amministrare la Zona A. Il susseguirsi di elezioni in Italia, le prese di posizione degli alleati sulla questione di Trieste per favorire i partiti atlantisti, si intrecciano con le fantasie jugoslave di poter arrivare alla costituzione del Territorio Libero di Trieste, magari lasciando a Roma e a Belgrado l’incombenza della nomina del governatore. Così, mentre la Zona B era oramai stata informalmente annessa alla Jugoslavia, quella della spartizione continuava a rimanere una delle soluzioni in campo, anche se non mancavano concrete ipotesi di arrivare ad una ridistribuzione in chiave etnica dei territori.

L’accordo venne raggiunto quando la sete di considerazione della Jugoslavia venne placata mettendola, nella trattativa, sullo stesso piano delle potenze occidentali. Per Belgrado in ballo non c’erano solo orgoglio e territori, ma anche soldi. Quelli che dovevano servire per costruire un nuovo porto da dare alla Slovenia per quello che non aveva potuto ottenere a Trieste. Alla fine, Jugoslavia ed Italia si spartirono la Zona B e la Zona A. L’Italia poté rientrare a Trieste, ma per farlo dovette comunque cedere alla Jugoslavia ancora qualche chilometro quadrato di territorio sui monti di Muggia.

Per dirla con Tenca Montini, dal punto di vista jugoslavo, si è trattato quindi di: “trovare un accordo con l’Occidente tale da salvaguardare il prestigio e l’immagine di indipendenza del Paese e ottenere il massimo in termini di aiuti economici. Ciò non significa che gli aspetti territoriali fossero trascurati, ma è chiaro che non ci fosse molto da attendersi su quel versante, e infatti non si ottennero che pochi chilometri quadrati, utili soltanto a dimostrare all’opinione pubblica di aver strappato una soluzione comunque migliore della semplice incorporazione della Zona B che la Jugoslavia già amministrava”.

Un libro questo che per lo storico Jože Pirjevec “chiude in modo definitivo la questione di Trieste” e che ci racconta quella “acrobazia diplomatica” che portò alla soluzione di una vicenda potenzialmente esplosiva, una polveriera pericolosa in un'Europa dove soffiavano forti i venti della guerra fredda e dove era meglio liberarsi dallo spettro di possibili rischiose scintille.


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