Capolinea Ostiense - Dario Cestaro

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Stazione di Roma Ostiense, punto d'arrivo e di transito di centinaia di muhajirin (a metà tra rifugiati ed emigranti) che, come Mussa Khan fuggono dall'Afghanistan e dopo un viaggio duro e rischioso attraverso Iran, Turchia e Grecia arrivano in Italia. Volti, silenzi, solitudini, speranze. Un racconto fotografico di Dario Cestaro (www.planetdario.com)

 

Ingresso al campo
Dio, grazie per avermi fatto musulmano”. Un rifugiato afghano, un muhajir, introduce gli ospiti al campo di Roma ostiense.Roma Ostiense rappresenta il principale snodo italiano lungo il tragitto dei migranti afghani diretti in Europa. Passato l’Adriatico i muhajirin approdano qui, guidati dai trafficanti o dal passaparola.(testi tratti dal reportage a puntate Mussa Khan)
Ai margini
Il piccolo campo preparato dai muhajirin è incastrato alla convergenza tra due linee ferroviarie. Una quindicina di materassi sono l’unico segno tangibile della presenza di una comunità umana tra questi binari. Seduti attorno a me vedo solo uomini. “E’ troppo pericoloso per una donna, per un vecchio o per un bambino infilarsi sotto un camion per imbarcarsi sul traghetto dalla Grecia all’Italia.”
Distanze
La distanza tra le nostre prospettive di vita, apparentemente risibile, è però resa incolmabile da un unico, irreversibile elemento: il passaporto. Il libretto filigranato che io tengo in tasca mi consente di andare e venire. Il loro è carta straccia. 
In cerca di casa
Col passare delle ore altri migranti si uniscono a noi. Il più giovane ha quattordici anni. Yousif, arrivato in Italia da tre giorni, è scappato dalla casa paterna di Herat un mese fa. “Secondo te è meglio il Belgio o la Norvegia?” Parla inglese fluentemente. Si calcola che solo nel 2009 circa seimila minori afghani non accompagnati abbiano richiesto asilo in Europa
Speranze
“In Norvegia”, rispondo, “ci sono buone possibilità per i rifugiati. E se trovi lavoro, puoi guadagnare bene.” Mi guarda assorto. “Già, dicono tutti così. Ormai sono convinto, appena mio cugino porterà i soldi, comprerò un biglietto per Oslo.”“E quando arriva tuo cugino?” Alza le spalle: “appena trova il camion giusto. E’ a Patrasso.”
A rischio rimpatrio
Eseguite in aperta violazione del diritto internazionale, le espulsioni extra-legali praticate da Atene hanno effetti devastanti se si pensa che la Turchia, a sua volta, procede sistematicamente al rimpatrio di cittadini iracheni, iraniani e afghani. Le “espulsioni a catena” espongono il rifugiato al pericolo peggiore, quello di essere riconsegnato alle autorità del proprio paese di origine, da cui, rischiando la vita, cerca di fuggire
Uguali, diversi
Mussa è un mio coetaneo. Ascolta gli U2. Segue Al Jazeera International e la BBC. Contatta gli amici su MSN, aggiorna il profilo Facebook. Mangia kebabe patatine fritte. Tira tardi la sera, fuma dopo il caffè. “E adesso come farai a proseguire il viaggio?” gli chiedo ingenuamente. “We’ll see ”, risponde speranzoso. “Vedremo.”
Senza diritti
“Appena entrato in porto, sono stato individuato dai cani della polizia. Mentre i marinai mi riportavano in nave, ho capito che stavamo scendendo troppo in basso. Era la sala motori. Mi hanno rinchiuso lì per altre cinquanta ore, insieme ad un harrag marocchino. Sbarcati in Grecia, ci siamo resi conto di essere diventati completamente sordi.” C'è voluta una settimana perchè Abdal tornasse a sentire. Era al suo quarto tentativo fallito
Il pasto
Seduti in un angolo, due ragazzi affettano cipolle, pomodori e peperoni nel fondo di una tanica di plastica tagliata a metà. Condivideranno il pasto con gli altri. “Vuoi mangiare con noi?” Accendo un sigaretta. “Grazie, non ho fame.” Poco prima avevo visto le stesse persone cercare cibo nei secchi della spazzatura
Sgombero
“Sono arrivati all’alba, sbucavano da tutte le parti. Erano venuti per sgomberare il viale.” Seduti su vecchi materassi, Zahir e i pochi muhajirin rimasti a Ostiense raccontano quanto successo al campo alcune settimane prima. “Hanno portato via tutti quelli che hanno accettato di entrare nel centro di accoglienza. Ma io”, aggiunge Zahir, “preferisco restare qui. Non ho più una tenda, ma sono libero di muovermi come voglio. Sono in Italia da tre anni, non credo più ai poliziotti."
Presenze
Dal cantiere giungono rumori sordi. Scavalcata un’altra recinzione, mi trovo alla base di un palazzo in costruzione. “Salam u aleikum.” Un muhajir si lava da un tubo di gomma, dopo averlo scollegato dal beccuccio di una betoniera. “U aleikum salam.” Il suo sorriso mi rincuora. Zahir parla perfettamente italiano. “Se vuoi lavarti, sbrigati. Qui è pieno di zanzare.” Quando abbiamo finito, ricollega il tubo alla betoniera. “Andiamo”.
Dublin agreement
Zahir mi spiega che la maggior parte di loro considera l’Italia come un paese di transito, alla stregua della Turchia o della Grecia. “Io sono dovuto restare qui perché appena sbarcato a Venezia, tre anni fa, sono stato catturato dalla polizia e costretto a depositare le impronte digitali. Gli accordi di Dublino”, continua Zahir, “non mi hanno permesso di proseguire oltre. Ho provato a stabilirmi altrove: in Norvegia, in Svezia, in Belgio. Lì i richiedenti asilo non sono costretti a dormire in strada come a Ostiense. Ma ogni volta mi hanno rispedito in Italia.” 
Il prezzo della paura
 “Negli anni passati molti muhajirin, esasperati dalla povertà estrema, hanno accettato i rimpatri volontari finanziati dall'Organizzazione mondiale delle migrazioni. Ma al massimo” continua Ibrahimi, “sono rimasti in Afghanistan per qualche settimana, per poi affrontare nuovamente il terribile viaggio verso l'Europa o l'Australia.” Dopo un attimo di riflessione, Ibrahimi porta il ragionamento alla sua scontata conclusione: “Il punto è che per noi afghani non c'è alternativa alla fuga da casa. Vivere nella paura è un prezzo troppo alto da pagare.”
Lontana destinazione
Mentre Zahir racconta, di tanto in tanto un treno sferraglia rumorosamente a pochi centimetri dalle nostre schiene, ma nessuno dei muhajirin sembra farci caso
Nella notte
La notte porta con sé un velo di brina. Uno dopo l’altro, i ragazzi affondano le braccia in un cumulo di stracci, tirandone fuori coperte impolverate. Ne prendo una anche io. “Ma tu non hai una casa?” Sistemo il mio materasso accanto a quello di Zahir. “Si, ma non è ancora il momento di tornarci. Devo parlare con te.”