In colonna (foto Mario Fiorin)

In colonna (foto Mario Fiorin)

Anche quest'anno si è tenuta la marcia che ricorda il percorso tentato verso la salvezza nel luglio del '95 dai bosniaco musulmani di Srebrenica. Un nostro lettore ci ha inviato il suo diario, che volentieri pubblichiamo

31/08/2010 -  Mario Fiorin

Martedì 6 luglio. Arrivo a Doborovci, uno dei tanti villaggi immersi nelle verdi colline della Bosnia: paesaggio da cartolina. Dopo tante titubanze ho deciso di partecipare, con un gruppo di giovani di Doborovci, alla MARŠ MIRA (Marcia della Pace) in ricordo del genocidio del 1995, quando nel mese di luglio più di 8.000 musulmani di Srebrenica furono massacrati dalle forze serbo-bosniache. Un percorso tra i boschi, lungo sentieri di montagna: più di 100 chilometri in tre giorni; si dovrà percorrere a ritroso il tragitto compiuto dagli uomini che fuggivano da Srebrenica verso Tuzla, alla ricerca della salvezza. Tante volte, con altri amici volontari, ho partecipato alla consegna di aiuti umanitari ai profughi, gli scampati da Srebrenica; ma ogni volta un pensiero triste prendeva il sopravvento: non potremo mai cancellare il dolore della perdita dei loro cari. Adesso posso almeno condividere con loro la memoria.

Appena arrivato, i ragazzi mi aggiornano sui nomi delle persone che avranno sepoltura l’11 luglio: sono i padri, i fratelli, i mariti delle persone del campo profughi; anche queste famiglie, dopo lunghi anni di attesa, potranno colmare il vuoto e piangere sulla tomba dei loro cari.

Mercoledì 7. Al mattino ho un incontro con E. e A., due fratelli originari di Bratunac, che sono scampati per miracolo al massacro, dopo una fuga di sette giorni senza cibo e senza riposo. Il più grande oggi vive in America con la famiglia: racconta della vita difficile dei primi anni, poi dice che ora si è sistemato e sta bene, anche se non può dimenticare la sua “bella” terra di Bosnia. Il secondo, dopo quindici anni trascorsi nel campo profughi a Doborovci, ha potuto ricostruire la casa di famiglia in un villaggio della zona di Bratunac, ma ha bisogno di finanziamenti per acquistare macchine agricole e bestiame, così da poter avviare l’attività agricola.

Nel pomeriggio ci spostiamo a Nezuk, la località di partenza della marcia: nel pullmino sobbalzante i ragazzi hanno voglia di scherzare (parlano di ragazze e mi chiedono più volte come sono le ragazze italiane); poi il discorso si sposta sulla Bosnia: la guerra è finita da quindici anni, ma la situazione è sempre molto critica. Un giovane studente di liceo parla dello splendore della Bosnia nell’epoca del dominio turco. Si dorme nella casa di un’anziana signora, che ci fa dono di tutte le forme dell’ospitalità bosniaca, compresa l’immancabile pita. Prima di dormire, con i ragazzi si parla ancora della Bosnia: l’11 luglio, il futuro. A. dice che vuole partecipare alla marcia per onorare i martiri di Srebrenica, i quali nel percorso per la salvezza sono andati incontro alla morte. T. aggiunge: “La nostra partecipazione è un invito a ricordare. Di Srebrenica si parla molto in occasione dell’anniversario dell’11 luglio, ma poi tutto finisce. Non bisogna dimenticare; se le generazioni future non sanno cosa è successo, si potrebbero ripetere questi orrori”.

Il partecipante più anziano (foto Mario Fiorin)

Il partecipante più anziano (foto Mario Fiorin)

Giovedì 8. Dopo una notte quasi insonne, ci si alza presto, per essere tra i primi a mettersi in cammino. Su una spianata i vari gruppi si preparano per la marcia; per qualcuno c’è tempo e voglia di una ricca colazione a base di pita o pollo arrosto. Durante l’attesa c’è modo di vedere i vari gruppi provenienti da tutte le regioni e città della Bosnia; tutti con il loro mezzo di identificazione: le scritte sulle T-Shirt o sugli stendardi. Le scritte si concentrano tutte su due concetti: “Per non dimenticare” (scritto in bosniaco e in inglese); “Srebrenica: la strada della salvezza – la strada della morte”. In un gruppo noto uno stendardo con uno strano stemma: martello e piccozza incrociati. Incuriosito, chiedo cos’è; mi dicono con orgoglio che è il logo della miniera di carbone di Kakanj, costruita nel 1902. Anche loro, per affermare il loro attaccamento alla Bosnia, hanno deciso di partecipare a questa marcia.

Ma è il momento di partire: una lunghissima fila si snoda tra salite e discese, in mezzo a due ali di persone che ci osservano con sentimenti di ammirazione e gratitudine. Il “pubblico” si ripresenta ogni volta che ci avviciniamo ad un villaggio, o anche ad un semplice gruppo di case. Tra i volti della gente si nota qualche sguardo particolarmente triste, soprattutto di persone anziane: noi che andiamo verso Srebrenica ricordiamo i loro familiari che su questi sentieri hanno trovato una morte violenta. La marcia alterna tratti in piano, in mezzo a prati assolati, e tratti in pendenza, in mezzo ai boschi, tra il fango o tra i sassi. Le ore passano, il caldo e la fatica si fanno sentire; per fortuna ci sono famiglie che hanno già preparato ristori con acqua, bibite, caffè “alla turca”; l’esercito e la Croce Rossa di Tuzla distribuiscono panini nella zona destinata alla pausa pranzo. Ci si sente parte di una comunità. Lungo il tragitto si scambia qualche parola. Si incontrano giovani e meno giovani; il più piccolo ha dieci anni, il più vecchio più di ottanta. Si sente parlare in molte lingue. L’Europa è presente; nella consapevolezza delle responsabilità delle nazioni per non aver aiutato la Bosnia nel modo dovuto, molte persone vogliono testimoniare la vicinanza e la solidarietà. Quando sento parlare in italiano, voglio fare conoscenza: gente di Varese, di Brescia, di Bologna; io solo di Padova. Qualcuno propone di organizzarci insieme per l’anno prossimo.

Molti i giovani bosniaci che hanno voglia di comunicare con persone che arrivano da altri paesi: da parte loro le domande più ricorrenti sono “Da dove vieni? Perché partecipi alla marcia?”. Rotto il ghiaccio, domando: “Come si vive in Bosnia oggi? Cosa pensano i giovani per il loro futuro e per il futuro della nazione?”. Le risposte tornano sempre su un concetto ricorrente: “In Bosnia la vita è ancora difficile, soprattutto per i giovani. Ci aspettiamo che l’Europa faccia qualcosa, soprattutto per la liberalizzazione dei visti.” Una giovane studentessa di Gornji Vakuf: “Per l’11 luglio il mondo guarda la Bosnia e la Bosnia guarda al mondo. Speriamo che, passata la ricorrenza, il mondo non ci dimentichi”. L’attenzione dell’opinione pubblica nei paesi europei è importante. La Bosnia ha lo sguardo rivolto a due orizzonti: il mondo islamico da una parte e il panorama europeo dall’altra. Importante per loro la partecipazione di gruppi dalla Turchia e dalla Palestina. Un ragazzo mi chiede se partecipo alla marcia perché sono un italiano musulmano. La risposta richiederebbe un discorso articolato, che non posso fare con le mie gravi carenze in inglese e in bosniaco. Intanto si arriva a Kamenica: il tragitto del primo giorno è concluso. L’esercito ha provveduto per la cena ed ha allestito la tendopoli per passare la notte.

Venerdì 9. Ancora occasioni per riflettere sull’Islam in Bosnia. Nella sosta di mezzogiorno, su un grande prato si svolge la preghiera del venerdì; c’è chi partecipa alla preghiera, ma molti altri in disparte continuano a chiacchierare e a consumare il loro pasto. L’appartenenza religiosa non è l’unica identità della Bosnia. La Bosnia ha pagato con molto sangue gli scontri che hanno strumentalizzato le differenze etnico-religiose; sapranno i paesi europei fare della Bosnia il centro di dialogo tra Est ed Ovest, tra Occidente e mondo islamico? Su questo tema interviene un ragazzo bosniaco con una frase lapidaria ma significativa: “Noi ci sentiamo musulmani europei”. Un altro mi pone una semplice domanda “Ci sono moschee in Europa?”. Io racconto delle “assurde” polemiche, anche a Padova, contro la costruzione di moschee. Il discorso offre l’occasione ad un giovane di Zvornik, che studia negli Stati Uniti, per raccontare come, mentre in Europa l’intolleranza arriva a proibire le moschee, in America nessuno si sognerebbe di vietare moschee, sinagoghe o altri edifici di culto, accanto a Chiese cattoliche e protestanti.

Intanto la marcia prosegue, con tratti più agevoli e tratti che mettono alla prova la nostra resistenza. Per qualcuno compaiono le vesciche ai piedi; gli interventi per le medicazioni sono immediati. La stanchezza del secondo giorno è alleviata dalla promessa che per l’ultimo giorno il tragitto sarà più breve. Durante il tragitto, in diversi punti si notano dei cartelli che indicano la presenza di “fosse comuni” in cui erano state sepolte le vittime dei massacri. Oggi il terreno è ricoperto di erba e fiori di campo. Forse questo è il simbolo di una Bosnia che non dimentica le ferite, ma può guardare con speranza al proprio futuro.

Sabato 10. Anche nel terzo giorno, di pomeriggio, le forze sembrano agli sgoccioli, per fortuna si è prossimi all’arrivo. Dal sentiero sterrato si arriva nella strada che porta al cimitero di Potočari. Una visione ci coinvolge e ci commuove: due file di persone, molte donne, ci accompagnano con uno sguardo fisso, che ti penetra profondamente, per un’emozione che sai già di non poter dimenticare. Sono le donne che hanno perso mariti, figli, padri, fratelli: possiamo solo immaginare cosa pensano in quei momenti, pensieri che per rispetto non proveremo mai ad esplicitare.

La marcia è conclusa: domani la cerimonia ufficiale per il 15° anniversario del genocidio e la sepoltura delle 780 salme identificate ultimamente. Le bare sono allineate in uno dei capannoni della fabbrica di accumulatori, nei quali si era perpetrato il massacro del ’95. Decine e decine di volontari trasportano a spalla le bare dal capannone al cimitero, dove i famigliari sostano presso i loro morti piangendo e pregando.

Una croce (foto Mario Fiorin)

Una croce (foto Mario Fiorin)

Domenica 11. Al cimitero di Potočari sono presenti le autorità nazionali ed internazionali. Discorsi di circostanza, con grossi impegni proclamati da ambasciatori di USA e Gran Bretagna, dal ministro degli Esteri francese e dal premier turco Erdogan. Fa un grande effetto la presenza del presidente della Serbia Tadić: non fa discorsi, ma la commozione sul suo volto vuol dire molto per i bosniaci. Ho il tempo per visitare il cimitero, per osservare con rispetto le fosse in fila, pronte per le sepolture. Noto una certa attenzione, soprattutto da parte di alcuni fotografi, attorno ad una fossa sulla quale c’è una croce; Habib, il mio accompagnatore, mi spiega che si tratta della tomba per un giovane croato (cattolico): la sua famiglia era arrivata a Srebrenica dalla Voivodina negli anni cinquanta; egli aveva trovato la morte con i musulmani nell’eccidio di Srebrenica, ed accanto ai musulmani trova adesso la sua sepoltura. Non posso non pensare alle vergognose proteste avvenute in una località del Piemonte per la sepoltura di una bambina marocchina, di religione musulmana, nel cimitero cattolico.

Martedì 13. Torno a Srebrenica per qualche intervista. Incontro N., che avevo conosciuto a Doborovci, dove era stato ospite come profugo fino al ‘99. Racconta: “Undici anni fa mi sono trasferito negli Stati Uniti. All’inizio non è stato facile; ho fatto tanti lavori difficili. Lavorando per otto ore al giorno riuscivo a guadagnare a sufficienza per vivere. Però mi sono messo a fare più ore di lavoro, così ho potuto mettere da parte dei risparmi. Nel 2005 sono tornato nel mio villaggio, ho comprato alcune macchine agricole e 150 pecore: oggi riesco a vivere bene. I miei figli sono rimasti in America, mentre io ho preferito tornare tra la mia gente. Però nei villaggi vivono solo anziani; il più giovane sono io, con i miei cinquant’anni passati. I giovani vivono in Srebrenica città, o sono andati via”. Giovani – lavoro – futuro: un tema che ricorre sempre quando si parla di Srebrenica. F., una ragazza del Forum Internazionale di Solidarietà (promosso da Emmaus) ci parla delle scarse prospettive per i giovani; anche per i pochi che hanno trovato qualche occupazione temporanea, la situazione non è rosea; in inverno, poi, la vita quotidiana è molto deprimente. Mi torna in mente una frase sentita sabato sera da un uomo, originario di Srebrenica, che vive a Sarajevo ed è tornato per l’11 luglio: “Sono poche le iniziative per intraprendere attività economiche. Parecchi preferiscono usufruire dei progetti delle organizzazioni internazionali presenti a Srebrenica. Ma fino a quando si potrà continuare?”. Torno sull’argomento con F., la ragazza di Emmaus; “Sì, è vero - mi dice - le organizzazioni presenti sono molte, ma non c’è una progettualità coordinata per il futuro di Srebrenica. Molte organizzazioni, finito il loro progetto, se ne vanno, e di ciò che hanno fatto non rimane nulla”.


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