Si apre oggi a Sarajevo un convegno di due giorni organizzato dall'Ambasciata italiana in collaborazione con OBCT. L'evento sarà affiancato da una mostra fotografica di Mario Boccia, che non sarà presente ma ha inviato ai partecipanti un suo testo. Lo pubblichiamo
Care amiche ed amici,
essere a Sarajevo solo con le parole non è facile per me. La cifra del mio rapporto con questa città è stata la presenza fisica e la condivisione, sia pur temporanea, del peggio e del meglio con i suoi abitanti. Alcuni di loro fanno parte della mia famiglia elettiva da più di vent’anni.
Durante la guerra ho scelto di frequentare il meno possibile l’albergo che oggi ci ospita. Quando possibile, ho preferito vivere in case normali, sempre straordinariamente ospitali. Non posso dimenticare le emozioni legate al semplice salutarsi, rientrando in Italia. Erano saluti definitivi, perché nessuno poteva essere certo di rivedersi. Come giornalista avevo bisogno di un approccio diretto con la precarietà della vita sotto assedio.
Quando ho potuto, ho preferito arrivare in auto dall’Italia piuttosto che con i voli del ponte aereo dell’UNHCR che collegavano Falconara a Sarajevo (dal febbraio 1993). Credo che il lento avvicinarsi alla capitale assediata, attraversando i territori in conflitto, mi abbia permesso di incontrare imprevisti che hanno arricchito il mio lavoro.
Ho scelto di lavorare soprattutto sulla vita che resiste, cercando di raccontare il dramma senza mostrare il sangue. Credo che per avvicinare il pubblico alla comprensione delle dinamiche che provocano una guerra e generare i necessari anticorpi, sia necessario mostrare le affinità, piuttosto che le (presunte) differenze. L’orrore può distogliere e paradossalmente rassicurare chi non ha memoria o cultura, che si tratta di qualcosa “che da noi non potrà mai accadere". Come se l’abominio peggiore della storia non fosse nato nel cuore dell’Europa e non abbia ben attecchito a casa nostra.
Naturalmente, non critico chi ha agito diversamente. Ciascuno di noi ha contribuito a raccontare la “storia del presente”. Credo che la cronaca, pura e semplice, rappresenti la parte nobile del lavoro dell’inviato. Raccontare fatti prendendosi la responsabilità di quello che si scrive o si mostra, compresa quella di rettificare o smentire, in caso di ulteriori verifiche. Fuori da questo impegno morale, il giornalismo semplicemente non è tale, anzi, può trasformarsi in una piccola storia ignobile (una carriera).
Giustifico completamente i “raccontatori di storie a pagamento” che affollavano la hall dell’Holiday Inn. Un giorno uno mi disse: “Vi vedevamo entrare, col giubbetto antiproiettile e il casco in testa, e dalla faccia che avevate immaginavamo quale storia raccontare e quanti soldi chiedervi”. Massimo rispetto per chi doveva pensare alla sopravvivenza della propria famiglia (minimo per chi comprava le loro storie senza uscire a verificarle).
Ho seguito con piacere le centinaia di iniziative del popolo dei volontari e delle volontarie italiane accorsi in Bosnia Erzegovina (e prima in Croazia) a fare qualcosa “contro la guerra”. Non si è trattato solo di scelte morali o ideologiche (o religiose), ma di aiuti concreti per le vittime in loco e per l’accoglienza ai profughi in Italia.
Un fenomeno che è proseguito anche nella ricostruzione post-bellica. L’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa ha lavorato molto sulla raccolta delle memorie di questa presenza nel conflitto.
Non posso dimenticare l’eterogeneità di un numero così grande di persone. Pregi e difetti, ma sguardi puliti. La generosità, il coraggio, il calore nel contatto umano. Sono stati la parte migliore di quel popolo che a volte ricordiamo di essere. Dopo l’uccisione dei tre volontari di Brescia, Guido Puletti, Fabio Moreni e Sergio Lana (29 maggio 1993), fu istituito un organismo interministeriale aperto alle organizzazioni umanitarie nazionali e internazionali che operavano sul territorio (“Tavolo di coordinamento per l’aiuto alla popolazione della ex-Jugoslavia”), anche per ridurre i rischi. Così è stato che ho visto militari e obiettori di coscienza lavorare insieme.
Scusatemi, ma non sono abituato a parlare senza mostrare immagini e senza guardare negli occhi o replicare alle obiezioni di chi mi ascolta.
Vorrei concludere con due esempi (tra i tanti) che mi sono stati particolarmente a cuore: il progetto “Local Procurement” diretto dall’ufficio di Zenica dall’ICS (Consorzio Italiano di Solidarietà) in partenariato con l’UNHCR; e il sostegno alla cooperativa agricola “Insieme” di Bratunac.
Nel primo caso, il valore aggiunto in un’operazione di distribuzione di aiuti umanitari per affrontare l’inverno (piumini, coperte, stufe a legna, ecc.) fu che si scelse di fare produrre i beni in loco, anziché importarli dall’estero. Non è una cosa da poco, perché operava sia per fronteggiare l’emergenza che per incentivare lo sviluppo riattivando l’economia locale. Le ditte in grado di produrre furono scelte tra quelle che non discriminavano le assunzioni del personale su base “etnica” o religiosa.
Il secondo è il caso del sostegno dato a una micro-cooperativa di dieci socie, in maggioranza donne, decise a riattivare la coltivazione di piccoli frutti tradizionali dell’area (lamponi, mirtilli, more, ecc.), per la conservazione, trasformazione e vendita di confetture e succhi di frutta.
Si tratta di un esempio virtuoso del rapporto tra volontariato, associazioni e (nella fase iniziale) cooperazione governativa. Sedici anni dopo la fondazione (2003), quella cooperativa ha più di 500 famiglie associate e i loro prodotti non sono più distribuiti solo nei canali di nicchia riservati a un pubblico attento alle tematiche solidali, ma anche in una catena della grande distribuzione italiana. Ci sono anche esperienze avviate in altri paesi. Si chiama “Insieme”, in italiano, per sottolineare, oltre alle sue origini, il fatto che le donne e gli uomini che ne fanno parte sono di religioni diverse. La linea dei loro prodotti si chiama “Frutti di Pace”. L’area di riferimento è la peggiore in assoluto. L’ultimo posto al mondo dove profughi vittime di pulizia etnica potevano pensare di tornare e ricominciare a vivere dopo l’orrore vissuto: Bratunac, a pochi km da Srebrenica. Solo la proverbiale tenacia di un gruppo di donne bosniache poteva riuscire in questa impresa, perché, come diceva la loro presidente, “se ci riusciamo qui, si può fare dappertutto”.
Vi saluto e abbraccio come se fossi lì.
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L'Ambasciata d'Italia in Bosnia Erzegovina e OBC Transeuropa, organizzano la conferenza internazionale dal titolo “Italia e Bosnia Erzegovina: Balcani ed UE da un secolo all’altro".
Qui i dettagli sull'evento
A margine dell'evento è prevista una mostra fotografica che presenta anche alcune foto del fotografo Mario Boccia
E' possibile seguire i lavori del convegno in diretta streaming
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