Jugodivas

Il documentario su cinque artiste balcaniche a New York, tra sentimento di colpa e indefinite appartenenze. Nostra intervista alla regista, Andrea Staka

15/08/2001 -  Nicola Falcinella

Fra i lavori più significativi legati all'area ex jugoslava presentati a Locarno va incluso "Jugodivas", lungometraggio tra documentario e fiction girato da Andrea Staka. Una giovane regista svizzera di nascita ma di origine jugoslava che in questa pellicola, già presentata al Sundance, a Monaco e Duisburg e premiato alle Giornate cinematografiche di Solothurn, incontra 5 artiste balcaniche trasferitesi a New York. Si tratta di Mirjana Joković (attrice protagonista di "Underground" e "La Polveriera", che nella Grande Mela lavora nel teatro off), della pittrice Vesna Golubović e delle tre componenti del gruppo musicale D'Divaz: Milica Paranosić, Sandra Vojcić e Danijela Popović. Ne esce un vivace e franco dialogo a sei voci su quello che significa vivere da lontano la tragedia del proprio popolo.

Come è nata l'idea di questo film?

Mi trovavo a New York già da due anni e volevo girare un film là. Allo stesso tempo intendevo affrontare il tema della guerra nel mio paese d'origine, tema che avevo già trattato nei corti precedenti ma che continuamente si riaffacciava nella mia vita. Volevo però mostrare qualcosa di diverso da uomini che stanno seduti e fumano oppure che sparano, non mi interessavano le solite immagini legate alla guerra. Un amico mi ha fatto incontrare Mira (Mirjana Joković) e le altre: è stata un'illuminazione, fare un film con donne giovani ed artiste, in una situazione così diversa. Avrei potuto imparare molto.

Che cosa rappresenta per te la Jugoslavia? Quali sono le ultime volte che ci sei stata?

Da bambina e da adolescente era per me la terra delle vacanze, in seguito è diventata la terra dei sogni. Avevo là i nonni e la famiglia perché mia madre è di Sarajevo e mio padre di Dubrovnik, nonostante io sia nata a Lucerna e vissuta in Svizzera. Con la Jugoslavia ho quindi una relazione puramente emozionale, affettiva, ma molto intensa. L'ultima volta a Sarajevo ci sono stata nel '91, prima della guerra, mentre a Dubrovnik ci sono stata anche nel periodo della guerra. Ricordo che fra il '91 ed il '97 si doveva fare un lungo viaggio, in aereo fino a Belgrado, poi in treno attraverso Serbia e Croazia, non si arrivava mai. A Belgrado, dove si sono rifugiati i miei nonni materni ed i miei cugini, sono stata ancora nell'agosto 2000.

Poco dopo c'è stata la rivoluzione che ha abbattuto il regime di Milošević. Sei ottimista o pessimista sul nuovo corso serbo?

Tutto sommato sono ottimista. Mi dicono che le cose vanno un po' meglio, anche se pure la gente deve cambiare un po', non basta che cambi il governo perché le responsabilità della dittatura e delle guerre sono più diffuse. I serbi devono riflettere su quello che è successo.

Nel tuo film emerge il sentimento di chi si sente un po' codardo per aver lasciato il paese.

Quando si lascia un paese in difficoltà ci si sente un po' colpevoli perché non si dà una mano agli altri. Stando a New York o a Zurigo posso bere un caffè o andare al cinema in piena tranquillità mentre la mia famiglia in Jugoslavia ha fame o ha paura della guerra. Nella vita però non ci sono risposte sicure su come comportarsi. Dal film emergono due posizioni contrapposte, quella della pittrice Vesna Golubović e quella delle tre musiciste. La prima ha lasciato il paese nel 1980 ed è ormai newyorkese a tutti gli effetti; le musiciste sono partite ai tempi delle guerre e si sentono più coinvolte e quasi colpevoli.

Le artiste sono concordi nel rimanere fedeli all'idea di Jugoslavia e nel rifiutare differenziazioni fra chi è serbo, macedone o croato o bosniaco.

Sì, si sentono tutte legate ad una radice comune. Anch'io credo sia stupido ed inutile stare a distinguere chi è macedone da chi è bosniaco o altro. Io sono figlia di un croato e di una serba di Bosnia ma sono nata in Svizzera: come potrei definirmi? Queste discussioni mi annoiano.

In "Jugodivas" si sente un gran lavoro, più che sull'immagine, sul sonoro. Sovrapponendo o sfalsando suoni e rumori hai voluto caricare di intensità i ricordi e le lacerazioni nell'animo delle tue intervistate?

Mi piace lavorare sul sonoro perché è uno strumento che sento molto mio nell'esprimere le emozioni. Non tanto la musica quanto i suoni. Ho cercato di rappresentare i nostri stati d'animo: in alcuni momenti ho cercato di creare un'atmosfera, in altri ho lavorato sul contrasto. Per esempio Vesna è una persona molto tranquilla, vive a NY da 20 anni, fa parte della metropoli, così ogni volta che parla le metto sotto i rumori della città. Al contrario Danijela Popović, la pianista del gruppo D'Divaz, è secondo me completamente legata al pianoforte, vive per il suo strumento: per questo ho sempre inserito musiche sotto le sue parole.

Nel finale del film ti si vede piangere: è insolito che la regista appaia per farsi riprendere mentre piange.

Il mio pianto è stato uno sfogo, è nato da un istante di rilassamento. Le riprese erano finite ed io mi sono lasciata andare perché è stata un'esperienza molto faticosa. Le artiste non volevano parlare della guerra, affrontavano tutti i temi tranne quello che mi interessava, mi è servito uno sforzo notevole per ottenere quel che mi serviva, con un dispendio enorme di energie fisiche e psicologiche. Dovevo stare molto vicina alle protagoniste, dovevo insistere, alla fine sono esplosa.

Conosci il cinema dei registi della ex Jugoslavia? Cosa ne pensi?

Vedo tutto quello che arriva in Occidente, e quando sono stata là ho cercato di tenermi aggiornata. Credo che negli ultimi 10 anni siano stati girati molti film interessanti, sia di registi maturi come Makavejev, Paskaljević o lo scomparso Pavlović, che di giovani come Đorđe Milosavlijević, Srdan Dragojević o Milko Mančevskij. Purtroppo i registi della diaspora non si conoscono fra loro ed è un peccato, perché ciascuno lavora per conto suo senza sapere quello che fanno gli altri. E poi la gente si aspetta che facciamo sempre film sulla guerra, mentre sono dieci anni che parliamo di questo: credo che dobbiamo uscirne senza dimenticare quel che è accaduto in questi anni.

E delle polemiche che accompagnano Emir Kusturica?

A me i film di Kusturica piacciono molto. Riguardo alle polemiche che avevano circondato soprattutto "Underground", penso che un regista non debba essere politicamente corretto: deve poter parlare di tutto senza avere posizioni prestabilite. Anche quando si vogliono interpretare i suoi film sulla base delle sue origini etniche o in base a contributi finanziari serbi mi pare che ci si perda in aspetti superficiali. Capisco che ci sia attesa intorno a personaggi così conosciuti e rappresentativi, ma in fondo è solo un regista che fa dei film.

Qual è il tuo film preferito di Kusturica? E quali i tuoi registi prediletti?

Di Kusturica amo particolarmente "Il tempo dei gitani", sotto l'aspetto visivo è fantastico. Adoro Dušan Makavejev, Saša Petrović e Živojin Pavlović, veramente grandi. E poi "La Polveriera" di Paskaljević, molto molto bello e veritiero. Nebojša Glogovac, l'attore che interpreta il tassista, è anche il protagonista del mio corto "Hotel Belgrad".


Hai pensato a un abbonamento a OBC Transeuropa? Sosterrai il nostro lavoro e riceverai articoli in anteprima e più contenuti. Abbonati a OBCT!


Commenti

Log in or create a user account to comment.