Il nuovo romanzo della scrittrice Rosella Postorino, edito da Feltrinelli, è basato su un'inchiesta che abbiamo svolto qualche anno fa dal titolo "I bambini di Bjelave". Minori partiti nel 1992 da Sarajevo per essere temporaneamente accolti in Italia e mai più tornati
(Originariamente pubblicato da Articolo 21 )
Nel 2019 Rosella Postorino, come racconta in una intervista, lesse un'inchiesta di Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa e si imbatté in un episodio della guerra in Bosnia che coinvolse particolarmente l’Italia. La guerra durò quattro anni (1992-1995) e uno degli eventi più tragici fu l’assedio di Sarajevo devastata da bombardamenti, attentati e dai micidiali tiri dei cecchini. In quella situazione, a tre mesi dall’inizio dell’assedio nel luglio 1992, si decise di mettere in salvo un gruppo di bambini trasferendoli in Italia con l’aiuto dell’ONU. La maggior parte di essi proveniva dall’ orfanotrofio di Bjelave, anche se alcuni non erano orfani, ma erano stati affidati temporaneamente all’orfanotrofio per assicurare loro i pasti, in una situazione che in città si stava facendo viepiù disperata, specialmente per famiglie meno abbienti. Altri provenivano da famiglie normali, ma che per motivi diversi, magari politici, si erano venute a trovare in particolare pericolo.
Si pensava che il soggiorno in Italia dovesse durare solo un breve periodo e nel caos della partenza non tutte le famiglie dei bambini dell’orfanotrofio poterono essere avvisate. La guerra poi si prolungò per quattro anni e alcuni bambini persero completamente i contatti con i genitori; ritrovarli fu un processo lungo e complicato e alcuni non li rividero più. Dopo un primo periodo in strutture di accoglienza, protraendosi a causa della guerra la necessità di preservarli da una situazione di pericolo, i ragazzi vennero progressivamente affidati a famiglie italiane, in alcuni casi adottati.
La storia che ci racconta Postorino nel romanzo "Mi limitavo ad amare te " (Feltrinelli, 2023) va dunque oltre la guerra, dal 1992 al 2011, e ci racconta anche la storia del difficile processo di integrazione di questi bambini, poi adolescenti. Processo doloroso sempre, sia per coloro che desideravano integrarsi e per farlo cercavano di strapparsi dal cuore i loro primi affetti, il ricordo del proprio Paese, la propria lingua, sia per coloro che non volevano dimenticare e rifiutavano nel profondo l’integrazione e gli affetti che venivano a volte offerti con le migliori intenzioni, ma che comportavano comunque forme di violenza culturale e psicologica, per chi, come alcuni dei protagonisti, non era disposto ad abbracciare una nuova famiglia, una diversa religione, ad accettare la morte non dimostrata dei propri genitori.
Postorino ha potuto ricostruire la storia grazie anche ai dialoghi con diversi protagonisti della vicenda, con alcuni dei quali ha lungamente parlato e stabilito un rapporto, mentre altri si sono sottratti alla rievocazione della memoria, come succede a volte a chi ha vissuto storie dolorose. L’autrice è nata nel 1978, è stata bambina, poi adolescente negli stessi anni di quei ragazzi e confessa di essersi molto identificata con quei coetanei che erano in tutto e per tutto come lei, sentivano la stessa musica, vestivano i jeans 501, vivevano una esistenza tranquilla, ma dall’altra parte dell’Adriatico e da un giorno all’altro la loro vita era cambiata.
Avevano vissuto lo strappo lacerante della separazione dalla madre, che nel romanzo è rappresentata in modo emblematico dalla storia di Omar, il bambino che proprio poco prima di partire è stato separato dalla madre dall’esplosione di una granata e che se ne deve andare senza sapere realmente se la madre ce l’abbia fatta. Ma lui si tiene stretta per sempre la certezza che la madre sia viva perché dopo l’esplosione ha sentito la sua voce che gli gridava “Corri” e lui ha corso e si è salvato. La complessità e l’essenza assoluta, incancellabile della relazione con la madre in particolare e delle relazioni parentali pervadono tutto il libro. In esergo l’autrice cita Morante da “L’isola di Arturo”: “Ma dalla madre, chi ti salva?”. Il dolore degli affetti persi, delle relazioni mancate ci viene raccontato con linguaggio figurato e coinvolgente dall’autrice, laddove un sentimento forte sbriciola le anche, l’angoscia è un’emorragia, il bisogno di abbracciare qualcuno è uno spasmo, un’ostruzione cardiovascolare, la paura occlude il corridoio, lo occupa fino al soffitto, un dolore è un forcipe dentro la testa.
Protagonisti del romanzo sono tre ragazzi: Omar, Nada e Danilo.
Omar è stato portato all’orfanotrofio all’età di cinque anni, insieme al fratello Sen di due anni più grande, che lo protegge e si prende costantemente cura di lui. Ha dieci anni al momento dell’esplosione della granata, ma è fragile minuto, mangia pochissimo e passa le giornate spiando dietro i vetri se arriva la madre a fargli visita all’orfanotrofio. Non ha mai cercato la compagnia di nessuno, tranne della madre e del fratello, ma a un certo punto viene fortemente attratto da una bambina a cui piace disegnare, Nada, di cui si innamorerà per sempre. Nada ha una gran massa di capelli biondi e due occhi blu profondi, la chiamano Moncherino, perché le manca l’anulare sinistro ed è spesso oggetto di scherno, tranne che in presenza del fratello Ivo, di diciassette anni, un capo tra i ragazzi.
Nada non ricorda nulla di quella madre che tuttavia l’ha chiamata Speranza, ma il fratello le ha detto che il suo nome in spagnolo significa niente e niente si sente di essere Nada per gli altri. Danilo invece appartiene a una famiglia colta, borghese, la madre è una giornalista attiva e impegnata e i genitori, in pericolo per le origini della madre, riescono a farlo partire col pullman per l’Italia. Danilo ha quattordici anni, è un ragazzo intelligente, sveglio, generoso, anche per lui andarsene è uno strappo lacerante, ma ha al polso l’orologio che il padre gli ha dato prima di partire: tornerà presto e glielo restituirà al suo ritorno. Tra i tre ragazzi si stabilisce un rapporto forte e complesso, che evolve nei lunghi anni della vicenda, ma proprio Nada e Omar, i più fragili, i più miseri, quelli che non hanno nessuno che li aspetta sono coloro che più fortemente restano legati a una speranza di ritorno, di ricongiungimento con la madre, coloro che rifiutano più a lungo un processo di integrazione. Nessuno li sceglierà, Omar verrà preso in affido e poi adottato solo per non separarlo dal fratello. Nada, la ribelle, resterà nell’istituto di suore che li avevano accolti all’arrivo fino alla maggiore età.
Danilo sarà raggiunto in Italia dopo due anni dalla madre e dalla sorella, continuerà a vivere in Italia anche dopo la fine della guerra. Lui ha voluto fortemente integrarsi, studiare, diventare avvocato, ma il dolore non lo risparmierà e la sua vita si intreccerà ancora a quella dei suoi due amici in una storia d’amore e di abbandoni. L’orrore della guerra oltre che nei primi capitoli è narrato in densi corsivi che si alternano di tanto in tanto alla narrazione della vicenda dei ragazzi e che, come si scopre verso la fine del romanzo, appartengono al taccuino blu di Azra, la madre giornalista di Danilo, che dopo essere sopravvissuta alla guerra non riesce a sopravvivere al dopoguerra o forse alla vita: “ (Danilo) Aveva passato la notte a leggere quei frammenti un po’ sconclusionati, così diversi dai pezzi che Azra Šimić aveva pubblicato sui giornali. Erano fotogrammi, allucinazioni. Erano vicende davvero accadute che lei aveva trasformato in scrittura, era la realtà che aveva attecchito in lei e, incistata dentro, aveva proliferato fino a debilitarla, fino ad ucciderla. Era la guerra inoculata nel suo organismo, dalle sue cellule filtrata, restituita. Era la guerra.” Proprio perché la vicenda va cronologicamente oltre la guerra a un certo punto i protagonisti si chiedono fino a che punto quanto loro continua ad accadere sia una conseguenza della guerra o sia la vita. Per quattro anni avevano attribuito la colpa di ogni difficoltà alla guerra, poi la guerra era finita e “Niente è tornato a posto … neppure la Bosnia Erzegovina” come dice il padre di Danilo.
Nel romanzo si racconta tanto dolore anche se nel colofon si avverte che i fatti e i personaggi, pur essendosi l’autrice ispirata a accadimenti reali, sono frutto della sua fantasia. Grande Storia e piccole storie che purtroppo tra qualche anno dovremo di nuovo raccontare se, cambiata la Storia, pensiamo alle deportazioni di bambini di cui si parla per la guerra in Ucraina. Il titolo del libro prende spunto da una poesia di Izet Sarajlić ("Cerco una strada per il mio nome / Tražim ulicu za svoje ime ", ndr) e allude, come afferma l’autrice, a come nelle grandi tragedie solo l’amore, gli affetti, anche quelli che incontriamo per caso, ci possano salvare.
I bambini di Bjelave
Il 18 luglio 1992 da Sarajevo sotto assedio partì verso l'italia un convoglio di bambini. 46 tra quelli prelevati dall'orfanotrofio di Bjelave, non sono mai rientrati in Bosnia: sono stati dati in adozione, nonostante genitori biologici in vita. Una tragica storia, riemersa dal buio.
OBC Transeuropa ha realizzato nel 2018 una lunga inchiesta, pubblicata nel Dossier "I bambini di Bjelave".
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