Cosa spinge sempre più le Ong a operare all'interno di network e condividere metodi, obbiettivi e informazioni tra loro? Chiara Segrado, coordinatrice dei progetti nel sud est Europa di Save the Children, offre uno spunto su quanto sta cambiando in quest'ambito. Nostra intervista
Cluster approach, è uno dei termini che da qualche tempo si sta imponendo nelle attività che affrontano le emergenze umanitarie internazionali, cioè la costruzione di “partenariati operativi” come risposta alle criticità che spesso si riscontrano e come strumento per migliorare l’efficacia delle azioni stesse. Lo scopo è quello di rafforzare il ruolo della comunità internazionale che interviene nelle zone di crisi (umanitaria, ambientale, etc.) rendendola più strutturata, responsabile e professionale e quindi capace di rispondere al meglio alle esigenze e ai bisogni diversi che si presentano.
Un approccio integrato, che mette insieme competenze e capacità diverse, all’interno di una visione di sistema, in un quadro di intervento organizzato, con ruoli diversi ma responsabilità condivise, che cambia quindi inevitabilmente anche il ruolo delle Ong verso le autorità locali, le organizzazioni internazionali e la cooperazione governativa.
Esistono diversi motivi che hanno spinto e stanno spingendo verso questa strada, e rimane tema di discussione ancora aperta se ciò sia provocato maggiormente da una necessità di sopravvivenza delle Ong, che per struttura e capacità gestionali da sole non riescono più a competere nell’acquisizione di fondi, oppure da una vera e propria comunanza di intenti delle diverse organizzazioni che si “associano”.
Chiara Segrado, coordinatrice regionale Asia, MENA (Medio Oriente e Nord Africa) e paesi del SEE (Sud est Europa) per Save the Children Italia, ne ha parlato lo scorso 26 febbraio a Gorizia al seminario “Le dimensioni internazionali della politica della salute” organizzato dalla Regione Friuli Venezia Giulia. Nostra intervista.
Tra i termini emersi nel suo intervento al seminario di Gorizia troviamo “networking”, “partnership ed alleanze” e “lavoro nei cluster”. Cosa significa esattamente questo nuovo modo di lavorare per le Ong?
È una metodologia di lavoro che si sta imponendo di recente in Italia e all'estero, per la quale spesso si usa impropriamente il termini di “consorzio”. Per Save The Children è una metodologia consolidata di lavoro, in quanto siamo un’organizzazione internazionale, con sedi nazionali in diversi paesi, che interviene con lavoro di network in moltissimi paesi (29 organizzazioni nazionali con interventi in 120 paesi). La chiamiamo “unified presence”, che prevede una gestione condivisa dell’ufficio locale.
Per fare un esempio oggi come Save the Children Italia stiamo partecipando ad un progetto in Nepal con le nostre “gemelle” di Norvegia, USA, Giappone, Finlandia, Svezia e Corea, che lavorano insieme attraverso un Board of Directors che approva i bilanci e definisce il piano di lavoro. Quindi non tutti fanno lo stesso lavoro in loco, ma c’è una condivisione dei programmi e degli obiettivi con una suddivisone delle responsabilità operative.
Ritengo che i Balcani presentino
una realtà fluida e in trasformazione.
Da un punto di vista della realtà
istituzionale mi sento di dire che
le autorità locali e le strutture legislative
hanno raggiunto buoni standard
ma la difficoltà ora
è l’implementazione delle leggi
Il lavoro di rete sta funzionando?
Per quanto riguarda l’Italia possiamo parlare di aspetti positivi del lavoro in rete ma l’esperienza è ancora “giovane” per essere valutata adeguatamente. Prendendo spunto dall’esperienza di AGIRE nell’intervento ad Haiti, è indiscutibile che unire le forze già nella raccolta dei fondi aiuta ad essere più efficaci, a non sovrapporsi e a intervenire in maniera unitaria.
Ci sono certamente dei benefici, come il fatto di avere un unico interlocutore verso il ministero, il non creare duplicazioni, il superare le criticità date dalla frammentazione. Al momento non possiamo ancora dire che si lavora in modo “consorziato”, ma forse più semplicemente “in forma associata”, quello che definirei al momento un buon compromesso: da un lato c’è un unico soggetto che fa da interfaccia e coordina i lavori, dall’altro all’interno del quadro generale ogni Ong continua a promuovere la propria proposta progettuale all’interno del network.
I network come stanno definendo i ruoli e il protagonismo delle diverse Ong che vi partecipano e il rapporto con partner locali?
Ognuno porta avanti il suo programma ed è difficile al momento valutare se e come questo cambi il rapporto con le Ong locali, certo possiamo dire che lo cambia nelle emergenze con le istituzioni. Nel bilancio tra motivi di opportunità e di comunanza di intenti, mi sento di dire che esistono motivi di “sopravvivenza” che rendono necessario aggregarsi, ma posso affermare che si sta rafforzando sempre più una comunanza di intenti che in molti casi fa superare anche quelle che potrebbero sembrare delle rivalità.
Pur rappresentando una novità, questa esperienza diversa di lavoro presenta già dei risultati?
Gli aspetti positivi si vedono, dall’ottimizzazione delle risorse all'integrazione delle competenze, dalla non duplicazione degli interventi allo scambio di conoscenze e informazioni. La carenza di informazioni inoltre rappresenta e ha rappresentato uno degli aspetti critici del complesso mondo della cooperazione internazionale. Uno dei primi obiettivi che il lavoro di rete e in forma associata sta perseguendo con efficacia è proprio il flusso di informazioni, che credo sia il primo importante passo per conoscersi, per superare la frammentazione e per approfondire la conoscenza del contesto in cui si opera.
Infine, rispetto ai Balcani, quali sono le priorità di Save the Children Italia?
I Balcani sono una delle aree prioritarie per noi, per motivi geografici, politici e storici. Operiamo nell’area da molti anni, ma all’inizio accompagnavamo le attività promosse da altre sedi nazionali, attraverso un lavoro di raccolta fondi e rafforzamento del brand. Oggi invece entriamo più direttamente nella gestione dei programmi locali. Come per molte Ong la presenza nei Balcani è cambiata, con una storia che ha avuto ovviamente il suo apice durante la guerra, con l’apertura di uffici e presenza di personale, mentre con la fine del conflitto e la conseguente diminuzione dei fondi dei donatori, Save the Children ha allentato la sua presenza: le sedi USA e UK hanno chiuso le loro attività e gli uffici, e siamo rimasti noi con gli svedesi e i norvegesi.
Quali sono i progetti che state portando avanti nell’area?
Save the Children offre competenze su minori e legalità, per affrontare le conseguenze del conflitto attraverso due settori specifici: protezione dell’infanzia ed educazione. Ad esempio è da poco finita un’importante campagna chiamata “Riscriviamo il futuro”, che, con lo scopo di perseguire gli Obiettivi del Millennio, ha promosso servizi educativi primari in Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro e Kosovo. L’azione è stata portata avanti sia nelle scuole (con direttori, insegnanti, e alunni) sia a livello ministeriale (su politiche, curricula, metodi di insegnamento). Si sono dovuti superare due retaggi, legati al regime e al conflitto. Il primo prevede ancora un insegnamento cattedratico e nozionistico, al quale abbiamo cercato di rispondere con un’impostazione di empowerment degli alunni, con metodi di studio più attivi e partecipativi. Rispetto alle conseguenze del conflitto si è lavorato invece sull’inclusività e l’accesso all’istruzione, soprattutto con gruppi marginalizzati, in situazione di povertà, o di rientri e ritorni “difficili”.
Quale è la situazione dei Balcani oggi dal suo punto di vista?
Ritengo che i Balcani presentino una realtà fluida e in trasformazione. Da un punto di vista della realtà istituzionale mi sento di dire che le autorità locali e le strutture legislative hanno raggiunto buoni standard ma la difficoltà ora è l’implementazione delle leggi. Ad esempio rispetto alla giustizia minorile esiste in Bosnia Erzegovina una legge molto moderna, emanata con il supporto dell’OSCE, però mancano ancora efficaci misure di attuazione. Proprio su questo esiste un lavoro con la Cooperazione italiana sui sistemi di implementazione della legislazione esistente.
Per quanto riguarda invece la società civile e le Ong, c’è stato negli ultimi anni un passaggio di consegne da interventi di emergenza e un lavoro sui questioni più mirate, sulla qualità degli standard e dei servizi promossi dagli interventi. E' avvenuta una scrematura delle organizzazioni internazionali presenti, che ora sono sempre più specializzate, anche se bisogna sottolineare il fatto che sui Balcani oggi si fatica a raccogliere fondi privati. Inoltre la società civile locale presenta degli aspetti di competenza e di professionalità che è andata rafforzandosi in questi anni. Sicuramente un aiuto fondamentale arriva dai fondi europei, che hanno cambiato approccio e obiettivo, puntando a un rafforzamento della società civile locale, alla promozione dell’expertise locale, alla costruzione di reti, al lavoro di network.
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