Benché sia stato un fenomeno distintamente europeo, il colonialismo continua a essere ricordato quasi solo a livello nazionale. Una risoluzione del Parlamento europeo potrebbe ora contribuire a farlo entrare nello spazio europeo della memoria
Agli occhi di chi vive nel resto del mondo, c'è almeno una cosa che accomuna gli europei: l'essere stati, per secoli, colonizzatori di altre terre. Dai massacri dei conquistadores alle scoperte di James Cook, dal vicereame dell'India all'espansione in Siberia, fino alla spartizione del Medio Oriente e alle torture in Algeria, sono pochi gli angoli del pianeta che furono risparmiati dal furore espansivo degli imperi europei. Pochi altri fenomeni come l'imperialismo e il colonialismo hanno visto impegnato un così alto numero di paesi europei in azioni parallele rivolte al resto del mondo – pochi altri fenomeni sono stati così distintamente europei, si potrebbe dire. Eppure quando queste stesse vicende e i loro strascichi vengono ricordati, studiati e discussi, lo si fa quasi sempre da prospettive strettamente nazionali. È stata una questione europea, ma è una questione rimasta finora al di fuori dello spazio europeo della memoria.
Eppure l'esperienza coloniale continua a influenzare il modo in cui siamo visti, e il modo in cui noi stessi guardiamo agli altri popoli, carichi di un bagaglio di stereotipi e pregiudizi secolari. L'eurocentrismo, ovvero l'idea che l'Europa abbia il dovere di aprire la strada e indicarla alle altre regioni del mondo, rimane un tratto importante – e problematico – del modo in cui l'Unione europea stessa continua a concepirsi. Ad esempio, pretendiamo di indicare agli altri la strada da seguire sul cambiamento climatico, la transizione verde, la tutela dei dati personali, la promozione dei diritti umani, e così via. D'altra parte la stessa Comunità europea nacque in epoca coloniale, e le colonie degli stati membri furono associate al mercato comune: non si tratta affatto di storie estranee tra loro, come ricorda un fondamentale studio di Peo Hansen e Stefan Jonsson .
La risoluzione del 2019
All'assenza della questione coloniale dallo spazio europeo della memoria ha posto un primo, parziale riparo una risoluzione del Parlamento europeo approvata esattamente un anno fa, il 26 marzo 2019. La risoluzione, passata a larghissima maggioranza (ma con molti parlamentari assenti), è dedicata ai diritti fondamentali delle persone di origine africana in Europa. Tra le varie cose, il Parlamento europeo vi nota che “i trascorsi di ingiustizia nei confronti degli africani e delle persone di origine africana, fra cui la riduzione in schiavitù, i lavori forzati, l'apartheid razziale, i massacri e i genocidi nel quadro del colonialismo europeo e la tratta transatlantica degli schiavi, continuano a essere in larga misura misconosciuti e ignorati a livello istituzionale negli Stati membri dell'Ue”.
Per questo, il Parlamento “incoraggia le istituzioni e gli Stati membri dell'Ue a riconoscere ufficialmente e a celebrare le vicende delle persone di origine africana in Europa, tra cui figurano anche le ingiustizie e i crimini contro l'umanità del passato e del presente, quali la schiavitù e la tratta transatlantica degli schiavi, o quelli commessi nell'ambito del colonialismo europeo”. La risoluzione suggerisce inoltre di istituire ricorrenze annuali e occasioni di approfondimento, di dare spazio a queste vicende nei programmi scolastici, di declassificare gli archivi. Infine, la risoluzione invita le istituzioni europee e nazionali a considerare “alcune forme di risarcimento, come la presentazione di scuse pubbliche e la restituzione dei manufatti rubati ai loro paesi di origine”.
La risoluzione del marzo scorso ha alcuni limiti, primo tra tutti il circoscrivere l'attenzione alla sola Africa e alle persone di origine africana. Ha però anche un grande merito: per la prima volta, un'istituzione dell'Ue si è espressa con parole chiare sul passato coloniale europeo, associandolo a concetti come ingiustizia, massacri, genocidi, crimini contro l'umanità. Benché il Parlamento europeo sia tra le istituzioni dell'Ue quella più pronta a prendere posizioni anche scomode, su questo tema fino all'anno scorso aveva sempre tenuto una posizione ambigua, evitando di pronunciarsi e facendo anzi a volte trasparire la persistenza di visioni eurocentriche.
Come si è arrivati alla risoluzione
Il processo che ha condotto all'approvazione della risoluzione del 2019 mostra ancora una volta quanto sia importante l'attivazione della società civile su scala transnazionale e l'impegno convinto di gruppi anche piccoli di europarlamentari. In particolare, hanno svolto un ruolo chiave lo European Network Against Racism (ENAR) – una realtà che aggrega decine di organizzazioni minori – e ARDI , l'intergruppo del Parlamento europeo che si occupa di diversità e lotta al razzismo. Negli ultimi anni ENAR e ARDI hanno collaborato ripetutamente sul tema del riconoscimento dell'eredità coloniale europea, all'interno di un più vasto impegno contro l'aumento della xenofobia osservato in Europa a partire dalla crisi migratoria del 2015.
Non a caso, hanno radici africane due degli europarlamentari che più si sono spesi a favore del pronunciamento del Parlamento europeo, il francese Jean-Jacob Bicep e l'italiana Cécile Kyenge . Bicep provò per primo a sollevare la questione del passato coloniale, promuovendo nel 2013 la proclamazione di una giornata europea per il ricordo delle vittime del colonialismo e della schiavitù che rimase però una mera proposta, a fronte di un interesse troppo scarso persino all'interno della stessa sinistra ecologista a cui Bicep apparteneva. L'attenzione sul tema è gradualmente aumentata negli anni successivi, soprattutto in reazione dell'inasprimento dell'atteggiamento delle opinioni pubbliche europee nei confronti dei flussi migratori provenienti dall'Africa e dall'Asia. ENAR e ARDI hanno continuato ad alimentarla organizzando una serie di iniziative istituzionali ed eventi, con uno sforzo congiunto che è poi sfociato nella risoluzione del marzo 2019. La risoluzione stessa naturalmente non rappresenta il punto di arrivo conclusivo di questo impegno, per il cui proseguimento ora lotta anche il nuovo European Network of People of African Descent (ENPAD).
Il ruolo del sud-est Europa
“21 [stati dell'Ue] non hanno mai avuto colonie,” ha dichiarato il presidente del Consiglio europeo Charles Michel al vertice dell'Unione africana il 9 febbraio scorso (dipende dalla definizione di “colonia” che si adotta, ma il numero reale è inferiore). Sul piano retorico, Michel sfrutta l'allargamento dell'Unione europea a 27 paesi per cercare di annacquare l'esperienza coloniale e presentarla come una parentesi marginale nella storia europea. È vero, l'allargamento ha contribuito a scoraggiare un dibattito sovranazionale sul passato coloniale: quell'esperienza investì soprattutto l'Europa centro-occidentale e, comprensibilmente, gli stati membri che vi rimasero estranei non vedono perché dovrebbero ora associarsi a una presa in carico di violenze commesse da altri. Questo disinteresse ha fatto il gioco di stati membri ben più coinvolti nelle vicende coloniali, assai restii a condividere pagine buie della loro storia aprendo un dibattito a livello europeo, senz'altro complesso da gestire.
Se dunque da un lato negli ultimi anni si è fatta strada a livello europeo una sensibilità sul passato coloniale e sono nate piccole reti per darle uno sbocco a livello istituzionale, dall'altro l'allargamento ha contributo a far passare in secondo piano tale questione, spingendo invece a concentrare tutta l'attenzione sull'enorme tema dell'eredità della Seconda guerra mondiale e sull'elaborazione di un consenso europeo sulla Shoah e i totalitarismi. In teoria, anche gli stati dell'Europa centro-orientale potrebbero in realtà contribuire attivamente alla riflessione europea sul passato coloniale, arricchendola grazie alla loro esperienza di territori spesso soggetti a potenze straniere ingombranti. Si tratta per la maggior parte di ex province dell'impero ottomano, dell'impero austroungarico o dell'impero sovietico, che potrebbero reclamare un loro passato “coloniale” – oltre a Cipro e Malta, che furono tecnicamente colonie britanniche fino agli anni Sessanta, o all'ex Jugoslavia, che si ritagliò un ruolo di spicco all'interno del movimento anticoloniale.
Gli ostacoli da superare
La difficoltà che ostacola l'apertura di una vera riflessione a livello europeo sul passato coloniale è una difficoltà comune ad altri fenomeni che si affacciano allo spazio europeo della memoria: anche laddove esistono delle memorie nazionali, non basterebbe limitarsi a individuare un minimo comune denominatore tra di loro. Stimolare un dibattito a livello europeo sull'epoca coloniale significa guardare oltre le specificità delle singole vicende nazionali, per cercare di cogliere anche quella dimensione transnazionale e sovranazionale del fenomeno che continua a rimanere spesso in ombra. E invece finora la paura di vedere porzioni della propria storia nazionale essere messe all'indice ha condotto gli stati membri a una sorta di patto di non belligeranza tra di loro: io non parlo delle pagine buie del tuo passato coloniale, e tu non parli del mio. D'altra parte, pure il dibattito storiografico e l'attivazione della società civile sono rimaste finora prevalentemente confinate a una scala nazionale.
Esiste un ostacolo ancora più a monte: mentre all'interno di alcune ex potenze coloniali, come la Francia o la Germania, il dibattito sull'eredità della propria esperienza coloniale è vivace, in altre – come l'Italia – è quasi del tutto assente. Non sono bastate le fughe in massa dall'Eritrea, il fallimento dello stato in Somalia, il collasso della Libia in quest'ultimo decennio per spingerci anche solo a conoscere le tracce che la presenza italiana ha lasciato in quei paesi. Gli storici che se ne occupano, gli intellettuali che ne scrivono, si contano sulle dita di una mano. La persistenza di monumenti e vie intitolate a criminali di guerra non viene quasi mai problematizzata, e pure i peggiori misfatti compiuti dagli italiani in Africa rimangono in molti casi ancora sconosciuti. Viste queste premesse, è difficile pensare che un paese come l'Italia possa contribuire a un dibattito europeo sull'esperienza coloniale – accadrà forse se mai il contrario, laddove l'avanzare del dibattito su scala europea inizierà a smuovere qualcosa anche in Italia.
Casa della storia europea
Nel maggio 2017, nell'anno del sessantesimo anniversario dalla firma dei Trattati di Roma, è stata inaugurata a Bruxelles la Casa della storia europea . Il museo, promosso dal Parlamento europeo, ha l’ambizioso compito di narrare la storia del continente e della sua integrazione politica. Negli ultimi anni il progetto ha fatto discutere, soprattutto per quanto riguarda la necessità e le modalità di presentazione di un “passato europeo”. Un'intervista di quell'anno alla sua direttrice Taja Vovk van Gaal a cura di Marco Abram.
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