Si è ben presto capito che il Tribunale dell'Aja non poteva essere sufficiente a processare tutti i crimini commessi nelle recenti guerre in ex Jugoslavia. Di qui l'idea di creare all’interno della Corte Statale bosniaca (fondata nel 2002) una sorta di “mini Aja”, una sezione specializzata esclusivamente nell’investigazione e repressione dei crimini di guerra. Una tesi di laurea

05/07/2011 -  Leonardo Bianchi

La frantumazione della Jugoslavia ha portato uno dei conflitti più cruenti dell’ultimo secolo direttamente nel cuore dell’Europa. Nel 1993, con la Risoluzione 827/1993, il Consiglio di Sicurezza istituì il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (TPIJ), un tribunale ad hoc con giurisdizione sui crimini internazionali commessi durante il conflitto e mandato limitato nel tempo.

Nell’arco di qualche anno, tuttavia, divenne chiaro che il TPIJ non avrebbe mai avuto le capacità e le risorse necessarie (pur essendo una struttura estremamente dispendiosa) per processare l'enorme totalità dei sospettati.

Dieci anni dopo la fondazione del TPIJ, il Consiglio di Sicurezza adottò le Risoluzioni 1053/2003 e 1534/2004, che elaboravano una completion strategy per la conclusione dei lavori.

Contestualmente, in una serie di incontri tra l'Alto Rappresentante della comunità internazionale in Bosnia Erzegovina (OHR) e alti funzionari del TPIJ, si sviluppò l’idea di creare all’interno della Corte Statale bosniaca (fondata nel 2002) una sorta di “mini Aja”, una Sezione specializzata esclusivamente nell’investigazione e repressione dei crimini di guerra “minori”, con competenza territoriale estesa a tutta la Bosnia-Erzegovina e competenza per materia limitata ai reati previsti dal nuovo Codice Penale del 2003.

La War Crimes Chamber fu inaugurata il 9 marzo del 2005, e rappresenta l’ultimo modello di giustizia domestica “internazionalizzata” o ibrida dopo le esperienze delle Extraordinary Chambers nella Cambogia, i Regulation 64 Panels in Kosovo, i Serious Crime Panels a Timor Est e la Corte Speciale della Sierra Leone. Tra le peculiarità della WCC, la più significativa è senza dubbio il phasing out dei giudici internazionali, ovverosia il progressivo ridimensionamento della presenza internazionale in seno alla Corte Statale. La data per il completamento della transizione era fissata alla fine del 2009, ma poco prima della deadline il mandato dei giudici internazionali (la cui presenza, rispetto al 2005, si è comunque significativamente ridotta) è stato esteso dall’OHR fino al 31 dicembre del 2012, a fronte dei numerosi problemi emersi durante i primi anni di attività della WCC.

La pervasiva politicizzazione delle questioni legate alle strategie da adottare in tema di giustizia transizionale ha condotto al fallimento di ogni iniziativa (Commissioni di Verità, leggi di amnistia, ecc.) che non comportasse un approccio strettamente penalistico per individuare e colpire i responsabili, accertare la verità e promuovere la riconciliazione nazionale.

L'operato di OHR e comunità internazionale, inoltre, non è stato esente da distorsioni, errori ed incomprensioni. La riforma dei codici del 2003 ha causato un diffuso malcontento tra professionisti del diritto locali, imputati e vittime.

Dai rapporti del JSAP (Judicial System Assessment Programme, organo internazionale deputato alla riforma del sistema giudiziario) e dai documenti dell’OHR si evince chiaramente come funzionari e consulenti (la maggior parte dei quali formatisi sotto un regime di common law, con previe esperienze lavorative al TPIJ) non abbiano compreso appieno – o peggio, abbiano volutamente ignorato – le specificità del sistema giuridico bosniaco, ed abbiano anzi sacrificato sull’altare dell’“efficienza” una secolare tradizione continentale di civil law, nella dogmatica convinzione che un sistema disegnato intorno allo Statuto e al Regolamento di Procedura e di Prova del TPIJ fosse l’unico sistema possibile per un’ottimale prosecuzione dei crimini internazionali.

Sebbene la War Crimes Chamber si sia dimostrata un’istituzione ben amministrata, capace di assicurare agli imputati il diritto di essere giudicati in tempi ragionevoli e impermeabile alle pressioni politiche e alle delegittimazioni provenienti principalmente dall'establishment della Republika Srpska, un singolo organo giudiziario, per quanto efficiente, non può certamente realizzare una strategia transizionale di ampio respiro.

Può dunque il modello bosniaco essere riproposto in altri contesti? Probabilmente sì, al netto ovviamente delle diversità che contraddistinguono ogni situazione nazionale dall’altra. Se il conflitto jugoslavo ha rappresentato l’estrema conferma della celebre battuta del filosofo sloveno Mladen Dolar (“il subconscio europeo è strutturato come i Balcani”), nonché una sorta di spia di un malessere più ampio che tuttora pervade l’Europa, similmente anche l’esperimento della War Crimes Chamber ha portato alla luce i punti di forza, le debolezze e le (forse) insanabili contraddizioni della giustizia transizionale “imposta” ed eterodiretta dalla comunità internazionale.


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