Partenza in sordina per il Tribunale speciale per il Kosovo. Che si troverà ad affrontare le stesse difficili sfide del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia: operare in un ambiente tutt’altro che cooperativo e conquistarsi la fiducia della gente, contro la narrazione dei nazionalisti che lo vogliono strumento nelle mani dei nemici del Kosovo
Meno di dieci giornalisti hanno assistito in presenza ieri (15 settembre 2021) all’Aja all’apertura del processo per crimini di guerra contro l’ex comandante dell’UCK Salih Mustafa davanti al Tribunale speciale per il Kosovo. Il contrasto era stridente con i fasti mediatici e l’interesse internazionale con cui erano accolti il Tribunale Penale per la ex-Jugoslavia e i suoi grandi processi. Un disinteresse che il Covid-19 e il fatto che il processo venga diffuso in streaming sul sito della corte non bastano a spiegare: dopotutto si tratta del primo processo per questa corte sui generis, istituita nel 2015 dal parlamento kosovaro nel quadro dell’assetto istituzionale del paese, ma con giudici e avvocati internazionali ed una sede in Olanda.
Il 49enne Mustafa, che all’epoca dei fatti comandava l’unità speciale “BIA” - cinquecento uomini dediti, tra le altre cose, al sabotaggio e alla raccolta di informazioni, anche sui cosiddetti “collaborazionisti” – si è presentato in T-shirt rossa e felpa grigio scura, lo sguardo attento e quasi di sfida, ma un dondolare sulla sedia costante che probabilmente tradiva il nervosismo. Ha aperto bocca solo per confermare, a suo modo, la sua dichiarazione di non colpevolezza, dopo che gli sono stati letti in sintesi i capi di imputazione: “Non c’è niente di vero in quello che dice questo tribunale Gestapo”, ha risposto in albanese ad una impassibile Mappie Veldt-Foglia, la giudice olandese che presiede il collegio giudicante (gli altri magistrati sono Roland Dekkers, Gilbert Bitti e Vladimir Mikula, supplente)
Mustafa è accusato di avere detenuto sei civili - tutti albanesi, ma sospettati di collaborazione col nemico – in una fattoria isolata nel villaggio di Zllash, non lontano da Pristina, nell’aprile e maggio del 1999. I sei vennero tenuti per settimane in condizioni disumane, interrogati quasi ogni giorno, torturati e umiliati. Quando un’avanzata delle forze serbe costrinse a levare le tende, due di loro non furono liberati ma fatti sparire, il corpo di uno ritrovato tempo dopo in una tomba improvvisata. Per questa vittima (tutti i nomi sono secretati, la protezione di famiglie e testimoni è una delle maggiori sfide per la corte) il capo di imputazione è dunque di omicidio. Si ipotizza che la causa della morte siano state le torture.
L’appartenenza etnica è importante – ha sottolineato nelle considerazioni iniziali il procuratore capo Jack Smith (Stati Uniti, una certa esperienza in casi complessi e delicati come i processi per corruzione) – perché smentisce l’asserzione che questa corte sia per i serbi e contro gli albanesi. “Va oltre le mie competenze giudicare se una guerra sia giusta o meno”, ha aggiunto, “ma so per certo che i crimini di guerra di una parte non giustificano quelli dell’altra e che la verità non danneggia mai una causa giusta”.
Arrestato il 24 settembre del 2020 a Pristina e subito tradotto all’Aja, Mustafa è una figura di secondo piano, anche per questo forse ha avuto diritto ad un pubblico modesto, per lo meno in presenza. A pochi chilometri di distanza, nel carcere di Scheveningen - che già ai tempi del TPI ospitava i detenuti in attesa di giudizio – attendono i “pesci grossi”, come l’ex presidente Hashim Thaçi, dimessosi il 20 novembre 2020 dopo l’incriminazione, o l’ex presidente del parlamento Kadri Veseli. La loro comparizione susciterà forse maggiore interesse, anche se la sensazione è che i fasti del TPI non potranno ripetersi. Se già quella corte, che si occupava di giudicare fatti avvenuti pochi anni prima, era accusata di lentezza, per i crimini del Kosovo siamo quasi all’archeologia giudiziaria.
Eppure, ci sono persone per le quali il tempo non passa: i superstiti e le loro famiglie (costrette a vivere sotto protezione) che per la prima volta si vedono riconosciute un posto in aula con l’avvocatura di parte civile, una funzione che nel TPI non esisteva. “Le ferite del 1999 non sono guarite”, ha detto la rappresentante delle vittime, avvocata Anni Pues “e tutti sperano finalmente che giustizia sia fatta”. Ma durante il suo intervento Mustafa aveva già lasciato l’aula, un comportamento che – per la parte civile – è un chiaro segno di mancanza di rispetto. In patria molti lo considerano e considereranno un eroe, qualunque cosa avvenga, e lui lo sa.
Anche se ha il vantaggio di poter fare tesoro delle esperienze altrui – come il TPI o la Corte penale internazionale– il Tribunale speciale si confronterà con le stesse impossibili sfide: operare in un ambiente tutt’altro che cooperativo e conquistarsi la fiducia della gente, contro la narrazione dei nazionalisti che lo vogliono strumento nelle mani dei nemici del Kosovo.
I tempi non depongono a suo favore: cinque anni dal rapporto del senatore svizzero Dick Marty all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa all’istituzione della corte; altri sei per istruire il primo processo. E in mezzo due importanti fughe di notizie, con documenti riservati della procura finiti nelle mani dell’associazione dei veterani dell’UCK (due persone sono in carcere per quei fatti).
Michael Doyle, che del tribunale è il portavoce e guida le campagne di sensibilizzazione, si professa ottimista: “Da tempo organizziamo eventi con giovani e con rappresentanti delle comunità locali in tutto il Kosovo quasi ogni mese. Informiamo la gente, ascoltiamo le loro domande e cerchiamo di dare risposte. Quello che vogliamo è un procedimento corretto, indipendente, imparziale in cui i diritti dell’imputato vengano rispettati, i testimoni siano sicuri e tutti possano partecipare nella dignità. Poi ciascuno ci giudichi guardando le udienze”. I segnali dicono però che c’è ancora molta strada da fare, e se in Bosnia Erzegovina o in Croazia molti ancora considerano i condannati del TPI come degli eroi, non si vede perché il Kosovo dovrebbe fare eccezione.
Corrispondente da Bruxelles della Radiotelevisione svizzera, Tomas Miglierina si è recato all’Aja per il radiogiornale RSI
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