Un'analisi dell'intervento internazionale durante il conflitto bosniaco. Con conclusioni impietose: la superficialità mostrata dagli attori internazionali nei confronti della complessità bosniaca impone una più ampia riflessione sulla natura, la preparazione e le competenze di questi organismi. Una tesi di laurea. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Tra il maggio e il luglio 2011 due importanti fatti di cronaca hanno riportato all’attenzione dei media il mai sopito dibattito legato all’intervento degli organismi internazionali nel conflitto scoppiato in territorio bosniaco all’inizio degli anni novanta. Innanzitutto, l’arresto del generale Ratko Mladic, il cosiddetto “boia di Srebrenica” e, successivamente, quello dell’ex-presidente della Repubblica Serba di Krajna Goran Hadzic: due atti che rappresentano, per la Serbia, un ulteriore passo avanti verso l’ingresso in Europa.
Inoltre, l’irrisolta questione in merito alle responsabilità delle Nazioni Unite durante l’intervento militare nell’enclave di Srebrenica ha subito una svolta consistente in seguito alla condanna, emanata da un Tribunale civile con sede all’Aja, ai danni del governo olandese, ritenuto responsabile della mancata protezione dei civili rifugiati nella base UNPROFOR nei pressi di Srebrenica, controllata all’epoca da un battaglione olandese.
Questi due avvenimenti segnalano l’attualità e l’urgenza di una più approfondita analisi del ruolo svolto dagli organismi internazionali (ONU, Comunità Europea, NATO) nel complesso scacchiere balcanico. Sinteticamente ricordiamo che l’azione di questi organismi si è inizialmente concretizzata in un intervento militare delle Nazioni Unite e in un parallelo tentativo di raggiungere, a livello diplomatico, accordi di pace il più possibile duraturi. Di poco successiva (17 novembre 1993) è stata poi la creazione del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, diretta emanazione delle Nazioni Unite.
Di fatto, l’andamento del conflitto bosniaco, l’immobilismo dei vertici internazionali e le problematiche legate all’azione giudiziaria del Tribunale mettono in dubbio l’effettiva validità ed efficacia di tale intervento. Quanto accaduto nell’enclave di Srebrenica è forse la più tragica ed esemplare testimonianza di questo fallimento. Al mancato raggiungimento di quelli che erano i principali e immediati obiettivi della missione militare, ovvero la tutela dei civili e, più in generale, l’attuazione delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, si è sommata una sostanziale incapacità della diplomazia internazionale nell’elaborazione di piani di pace condivisibili, attuabili e duraturi.
L’analisi dei piani di pace proposti dai mediatori internazionali, nonché delle ripercussioni di tali piani, rivela - se si considera parallelamente anche la creazione ad hoc di entità etnicamente omogenee quali le safe areas - la persistenza di problematiche strutturali e gravide di conseguenze a lungo termine. La caratterizzazione del conflitto bosniaco come feroce scontro etnico, e i conseguenti sforzi verso una sua possibile risoluzione attraverso l’elaborazione di piani di pace orientati in quel senso, hanno di fatto concretizzato la divisione della Bosnia in aree etnicamente omogenee; in questo modo si è giunti a una apparente “legittimazione” degli stessi soggetti che utilizzavano la pulizia etnica come strumento attraverso il quale raggiungere molteplici obiettivi. Il fatto che la safe area di Srebrenica sia stata oggetto di scambio tra due parti in lotta, con il sostanziale benestare della comunità internazionale, è dimostrativo delle implicazioni e delle tragiche conseguenze di tale interpretazione.
La sovrapposizione dei confini etnici ai confini territoriali, sancita dagli accordi di Dayton, ha compromesso in modo permanente ed irreversibile l’importante patrimonio di compenetrazione culturale già proprio della ex-Jugoslavia. Nondimeno, la creazione di stati monoetnici riconosciuti a livello internazionale ha trasferito la fonte di legittimazione dello Stato dalla”cittadinanza” all’appartenenza etnica. La superficialità mostrata dagli attori internazionali nei confronti della complessità bosniaca impone una più ampia riflessione sulla natura, la preparazione e le competenze di questi organismi.
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