Senza fare sconti agli organismi internazionali, ma nemmeno a se stesso, Michele Ricca racconta in "Cosa resta di una guerra" la sua esperienza di operatore umanitario in Bosnia Erzegovina dopo la firma del Trattato di Dayton. Una recensione
La testimonianza di un’esperienza vissuta trent’anni fa, ma straordinariamente attuale perché parla di una guerra e di quelle che con una metafora vengono definite “tigri di carta”, riferendosi alle organizzazioni e forze militari inviate dai grandi organismi internazionali, ONU e NATO in testa, a vigilare, controllare, dirimere situazioni territoriali difficili e a intervenire come forze di pace in zone di guerra.
Nei fatti, però, le "tigri di carta" si trovano costrette quotidianamente a dover fare i conti con i diversi protocolli di servizio e disposizioni di vario carattere, che spesso finiscono con il limitare le azioni da compiere per attuare al meglio i compiti per cui sono state chiamate.
Questo emerge chiaramente nel libro di Michele Ricca “Cosa resta di una guerra”, pubblicato da Idrovolante Edizioni, che traspone l’esperienza dell’autore come operatore umanitario in Bosnia Erzegovina nel 1996, subito dopo il Trattato di Dayton che avrebbe posto, almeno ufficialmente, la fine alla guerra nel paese.
Quella in Bosnia Erzegovina non è stata l’unica esperienza di Ricca, che in precedenza si era trovato a operare per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) e quello dei Diritti Umani (ACNUDR) in Mauritania, Kenya, Somalia, Ruanda, così come negli anni successivi in altre parti del mondo per altri organismi internazionali come l’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e Cooperazione in Europa), la CICR (Comitato Internazionale della Croce Rossa di Ginevra), la DGCS (Direzione Generale Cooperazione e Sviluppo) del nostro Ministero degli Esteri, quindi per delle ONG, fino al 2021 quando è stato in Ucraina e più di un anno in Donbass.
Nonostante la sua ampia biografia, sembra che soltanto dal 1996 al 2000, ovvero gli anni trascorsi in Bosnia Erzegovina, abbiano offerto materiali per il libro, dove, comunque non mancano riferimenti, in forma di ricordi e confronti, delle esperienze precedenti, particolarmente dure e pericolose.
“Cosa resta di una guerra”, in questo senso, è straordinario, perché l’autore entra nel vissuto quotidiano là dove altri testi si fermano agli aspetti politici e più generali, mentre qui siamo a contatto con l’uomo, le sue emozioni, paure (a cominciare da quello per le mine disseminate sul territorio), sentimenti, rabbie, intemperanze, rapporti umani, tutto ciò che fa di un operatore al servizio di un organismo internazionale di cui è, in carne, ossa e sangue, il rappresentante sul territorio: nel caso di Ricca quello del Cantone 10 con sede a Livno, non distante da Mostar, una zona a maggioranza croata divenuta assolutamente prevalente dopo la guerra con la cacciata di molti bosgnacchi e serbi.
Compito di Ricca, praticamente solo con l’aiuto di un’autista e interprete, Ivica, ex combattente croato, e di Marija, una bella giovane croata, integralista cattolica, a farle da segretaria e, a sua volta, interprete.
Il suo compito specifico era quello di agire al fine di riconciliare le diverse etnie che componevano il territorio, cercando addirittura di riportare sul luogo d’origine i profughi che prima l’abitavano, costretti dalla violenza della guerra ad abbandonarli.
Ricca non si fa illusioni. È troppo recente il sangue versato, il dolore per i congiunti e parenti morti ammazzati, le case bruciate, le razzie, i saccheggi, gli stupri per convincere la gente a ricominciare, e sente questa resistenza quando nei colloqui con sindaci e capi della polizia locali, spesso espressione di bande criminali, questi ignorano le sue proposte o le respingono a prescindere, indifferenti o ostili a tutto ciò che rappresenta la sua missione.
Situazioni spesso estreme, per le quali l’abilità diplomatica non basta. Ricca, però, non demorde, così come non si nasconde dietro lo scudo buonismo, tanto da sentirsi isolato dai suoi colleghi e dai suoi capi a Mostar come a Sarajevo.
“La mia ultima risposta ai colleghi di Sarajevo era stata dettata da come io sentivo le cose, come al solito con poco ‘automatico’ rispetto delle norme scritte e le convenzioni non dette, e con nessun rispetto per le scelte ipocrite, buoniste a parole e menefreghiste di fatto, della stragrande maggioranza di loro”.
Farà ciò che potrà, fino al coinvolgimento personale, se necessario disobbedendo ai protocolli, fino al punto di riuscire a trovare collaborazione da Ivica e Marija, quest’ultima, soprattutto, spesso sorda e cieca a tutto tranne che alle informazioni manipolate, in chiave di propaganda nazionalista, dalla tv croata.
Ricca nella sua narrazione, che si dipana in sette capitoli ricchi di storie diverse, non esita a offrirci anche un ritratto dell’uomo in carne e ossa, con le sue debolezze (il cibo e le bevute con Ivica), la corte alle belle ragazze del posto o colleghe, l’amicizia con Ivica che arriverà anche ad aiutare un serbo e a stringergli la mano, mentre Marija, che sperava di sposarsi, lasciata dal fidanzato, s’intenerisce per un bambino bosgnacco orfano, i cui genitori sono stati uccisi, e vive con la nonna, senza sapere della loro morte.
Un libro che, come detto, racconta storie di trent’anni fa: ma che purtroppo, guardando alle guerre intorno a noi, ai morti, alle stragi, alle distruzioni, che gli odi etnici spargono, è ancora molto attuale. Anche per lo sguardo severo verso quegli organismi internazionali che si rivelano essere tigri di carta, vincolate a protocolli e convenzioni che di fatto le rendono, se non inutili, spesso impotenti.
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