A febbraio di quest'anno, ad un anno dalla guerra ucraina, è uscito in versione aggiornata il libro di Chiara Ingrao "La guerra è silenzio", pubblicato per la prima volta nel 2007 a più di dieci anni dai conflitti di dissoluzione della ex-Jugoslavia. Una recensione
(Originariamente pubblicato da Articolo 21 )
Il libro di Chiara Ingrao “Il resto è silenzio” (Baldini & Castoldi, 2023) è un testo che ha avuto una lunga gestazione e ha una lunga storia. E’ stato pubblicato per la prima volta nel 2007 [in copertina la foto di Mario Boccia, poi diventata famosa come "La ragazza che corre", ndr] a più di dieci anni dalla dolorosa guerra nella vicina Jugoslavia che dal 1990 al 2001 ha rotto per la prima volta la pace in Europa dopo la seconda guerra mondiale.
Erano tempi in cui la scrittrice era da anni impegnata nel movimento pacifista ed era stata per un periodo parlamentare; anche per quel conflitto si era adoperata con gli strumenti del pacifismo, ma erano occorsi anni poi per poterne raccontare. Ciò che le stava a cuore di dire non era degli eventi, di cui nell’edizione attuale tuttavia introduce una cronologia per rispetto dei lettori specialmente più giovani, ma dell’indicibilità della guerra, dell’indicibilità del dolore che essa porta, del solco che separa le vite di Noi e Loro.
Nonostante gli sforzi, la buona fede resta un solco tra chi guarda la guerra e chi la vive perché le guerre, e l’autrice cita Israele e la Palestina, Gaza e le Torri gemelle, l’Afghanistan e l’Iraq, per Noi sono rimaste sempre le guerre degli altri, ma l’indicibilità e il dolore restano sempre gli stessi. Per questa indicibilità l’autrice, adesso che la guerra soffia di nuovo sull’Europa e potrebbe farsi “totale e travolgerci tutti”, ma per ora rimane lo stesso la guerra degli altri, per questo ha sentito la necessità di ripubblicare il libro concludendo “ decidano i lettori e le lettrici, in questi giorni in cui il buio ci assedia in mille modi, da lontano e da vicino, se questo mio viaggio parla anche a loro” . E il testo ci parla, ci interroga, ci afferra intensamente, col suo andamento coinvolgente tra prosa e prosa poetica, tra rievocazioni, dialoghi, flussi di coscienza, tra Storia e Mito.
“Ma perché te la sei presa in casa? Ma ti rendi conto di cosa vuol dire, una cosa così?” La frase colta al volo da una conversazione telefonica su un autobus, nel tra tran quotidiano in cui ormai siamo immersi sempre però in uno stato di allerta, attanagliati dalla paura, apre uno squarcio nella memoria di Sara, la protagonista. Riemerge dallo specchio annebbiato la storia di Slavenka, l’eroina bruna e bellissima, uccisa sul ponte di Sarajevo, dove si sparavano tutti, assalitori ed assaliti, morta per recuperare il corpo del fratello, ucciso forse dai compagni dell’altro fratello, che combatteva con i bosniaci nazionalisti.
Ritorna il mito di Antigone e Ismene, rivive la storia delle altre due sorelle: Slavenka, l’Antigone di Sarajevo, come la chiamarono i giornali, e Musnida, la Pacifica è il significato del suo nome; la musulmana e la slava, la bella e la sbiadita, sorelle in una di quelle famiglie in cui le origini e le provenienze si sono mescolate e dove la guerra scava solchi, separa i destini.
Sara, una esperta traduttrice e interprete che vive sola, dopo una dolorosa separazione dal marito, si trova così proiettata a ricostruire il puzzle di una storia rimossa, di un lutto non elaborato, in un dialogo con se stessa e a volte rivolto alla propria sorella, con la quale ha un rapporto stretto, ma conflittuale: la storia del suo rapporto e della difficile amicizia con Musnida cui aveva dato ospitalità. Musnida, “Smorta , ma non morta, un corpo estraneo, una straniera, una profuga”, una di cui diffidare per gli altri; un’ospite, una collega come invece diceva lei. Sara aveva conosciuto Musnida negli anni Ottanta al festival del Cinema jugoslavo a Pesaro, dove tutte e due lavoravano come interpreti, mentre Slavenka si trovava lì perché aveva seguito la sorella per una breve vacanza. Tutti erano affascinati dalla bella e loquace Slavenka, ma Sara aveva stretto amicizia con Musnida, con la quale aveva scoperto affinità culturali, condiviso l’amore dei libri, della poesia declamata a memoria in lingua originale: “Il resto è silenzio” dall’Amleto, era il saluto con cui si lasciavano la sera tardi dopo lunghe chiacchierate.
Poi, dopo più di dieci anni improvvisamente una sera quella telefonata di Musnida che si trovava a Roma, in fuga dalla guerra e senza che lei chiedesse niente Sara si era sentita in dovere di offrirle ospitalità a casa sua. La storia delle due sorelle viene raccontata in contrappunto con quella di Antigone e Ismene in particolare in tre capitoli che si alternano alla narrazione di Sara e in cui la storia delle due tebane è raccontata con la voce di Ismene: “Non cercavo la fuga, ma un senso, una misura, Nostra: di donne, non di eroi. Non seppi spiegarlo... Siamo nate donne, sorella. Non è per noi, il modo in cui lottano gli uomini. Il nostro destino è un altro: sopravvivere. Non è una legge eterna anche questa, quanto la legge dei morti?”. Sara rievoca la difficoltà di accogliere l’Altro e il suo dolore, la difficoltà della convivenza con Musnida che si stabilisce nella sua casa. I suoi vani tentativi di instaurare una conversazione quotidiana, l’insofferenza per l’ospite che manifesta il suo disagio con gesti, modi, tic che Sara non riesce a interpretare.
Difficile è anche capire le scelte politiche ed esistenziali di Musnida, che si proclama ostinatamente jugoslava quando la Jugoslavia è già implosa. Sara dovrà ritrovare nella memoria i frammenti dei discorsi di Slavenka a Pesaro e le immagini delle foto di famiglia che mostrava per cercare di capire la storia dei famigliari di Musnida e del suo intero popolo. Si ricorderà che il loro padre era un dissidente morto suicida in carcere e tenterà di interpretare la storia di quella famiglia e di tutto quel Paese come una storia di suicidi: “Non era stato un suicidio anche quello dei suoi fratelli, in fondo. E poi lei ad andare così sola su quel ponte, in quel modo … E tutto il suo Paese, in fondo. Ma era davvero quello il modo di raccontarla? Era davvero solo una storia di suicidi, di sangue?”.
Mentre Sara si sforza inutilmente di integrare Musnida nel lavoro, continua ad interrogarsi sulla sua storia e sulla guerra, quei pronomi Noi e Voi, il fatto che non si possa più dire Noi Europei e nemmeno Noi Jugoslavi, parole che riecheggiano in un convegno in cui sia lei che Musnida partecipano come traduttrici. Il pensiero di Sara si dilata sul mondo, sulle storie terribili di questi nostri anni. Pensa a quando ha visto crollare le Torri gemelle e ha pensato “Adesso tocca a Noi”, poi è stato ancora un Loro lontano, è stato il prevalere dell’odio, della vendetta: “Ma ci interessava davvero, sapere cosa c’era sotto quel burqa? E sotto alle bombe, che cosa c’è? Davvero Loro sempre Loro? Allora quando siamo andati a bombardare Kabul perché non bombardasse New York; ma anche prima quando abbiamo bombardato Belgrado perché non bombardasse il Kosovo, e dopo anche Baghdad, perché … Già perché?”. Vanessa, la sua collega pacifista le ostenta una risposta impaziente “Ma davvero non capisci Sara?… Non cambierà mai nulla. Se non cambia il nostro modo di vedere le cose, il nostro sguardo sul mondo”.
Sara però la sua risposta la continua a cercare nel rapporto con Musnida, nello sforzo di capire la sua storia, nell’ offrirle la sua accoglienza, una sua sorellanza. Musnida che ora si allontana, ora riesce a essere vicina a Sara, a darle lezioni di vita, di comprensione degli altri, di gesti di attenzione e di generosità che noi abbiamo perduto, di come ci si deve comportare con una madre malata. Anche Musnida continuerà a ricercare la sua verità, la sua risposta a quanto le è accaduto, alla vita e la lascerà alla disponibilità di Sara, nei libri compulsati e sottolineati e nei file del computer nella sua camera, che infine Sara si deciderà a leggere e poi di nuovo rimuoverà dalla memoria. La risposta di Musnida arriverà anche con la storia riscritta di Ismene, che parla alla sorella Antigone e alla sorella straniera, il cui abbraccio ha fatto sciogliere le sue lacrime che si erano fatte roccia di dolore dentro di lei e finalmente ora può dire la verità più semplice e vera: il suo bisogno di piangere Antigone e con lei se stessa, i fratelli. Può celebrare i riti, ora che si è ricordata le parole che le aveva detto Antigone: “ Io ho scelto di morire, tu Ismene devi vivere… Restare. Ricostruire” e superare il senso di colpa. Ismene/ Musnida riesce a riconoscere la storia della città, delle origini, i cicli della storia, la furia della violenza e i diversi sogni che gli esseri umani generano “Spezzati, eppure ancora da sognare. Inquieti. Indocili. Irriducibili a uno”.
Questa nuova edizione del libro è arricchita da una bella e stimolante postfazione di Raffaella Chiodo Karpinsky “Noi e la guerra, ieri e oggi”. Ci parla della guerra russo – ucraina, della difficile esperienza, ieri come oggi, nella pur generosa volontà di accoglienza dei profughi. Ci dice dell’esperienza di accoglienza dei finlandesi e della sorella, che ha accolto in casa una madre e una figlia ucraine. Karpinsky, nella cui famiglia si mescolano origini russe e ucraine, ci racconta il suo personale dolore di fronte a questa guerra: “Dalla piazza Rossa si sta uccidendo la mia stessa anima”. Ci confessa il suo disperato tentativo di “restare se stessa” sostenendo e facendo conoscere il più possibile il volto della Russia che resiste al buio della ragione e soprattutto il movimento di opposizione alla guerra delle donne.
Oggi esiste una gran difficoltà di creare ponti come è stato fatto tra le israeliane e le palestinesi, come ha fatto una donna cecena che chiama Svetlana, nome di fantasia, per portare avanti azioni contro la guerra e per rendere possibile almeno il recupero delle salme dei figli. Ma adesso per le russe e le ucraine sembra più difficile collaborare per la repressione che su entrambe i fronti si abbatte su chi è disposto a parlare con il “nemico”. Tuttavia l’unica strada percorribile, ci dice, è ancora quella della fiducia reciproca, della fiducia nel futuro e di lavorare per la ricostruzione.
Intervista a Chiara Igrao
"Sono venuta qui per la prima volta nel '91. Allora ero dirigente dell'Associazione per la Pace, avevamo organizzato insieme ai pacifisti di tutte le parti dell'ex Jugoslavia una carovana che partiva da Trieste attraversando Slovenia, Croazia e Serbia e si concludeva a Sarajevo con una catena umana."
Lo ha raccontato Chiara Ingrao ad Andrea Oskari Rossini di Osservatorio Balcani che l'ha intervistata nel 2008 a Sarajevo alla presentazione di "Ostalo je muk", edizione bosniaca de "Il resto è silenzio".