Fatima Tlisova e Jurij Bagrov

Fatima Tlisova, dell'agenzia di informazione Regnum, e Jurij Bagrov, corrispondente di Radio Svoboda da Vladikavkaz, sono i primi giornalisti russi ad aver ottenuto asilo politico in Occidente nell'era Putin

10/07/2007 -  Davide Cremaschi

L'annuncio ufficiale dell'ottenimento dello status di rifugiati politici da parte dei due reporters russi proviene dal Comitato per la Difesa dei Giornalisti (CPJ), un'organizzazione internazionale con sede a New York.

La notizia, che viene ripresa da Kommersant' e dai siti delle principali agenzie di stampa russe, fa seguito ad un recente articolo del New York Times secondo il quale i due giornalisti avrebbero presenziato ad una tavola rotonda presso il Parlamento statunitense sui temi dei diritti umani in Caucaso. Pochi giorni dopo, avrebbero organizzato insieme al CPJ una conferenza stampa a Washington per spiegare i motivi della loro fuga dalla Russia. A spingere i due ad espatriare sarebbero state "le ripetute minacce nei loro confronti, le persecuzioni dell'FSB e l'impossibilità di poter svolgere il proprio lavoro senza impedimenti".

Nel corso della conferenza stampa, la coordinatrice del Comitato per la difesa dei giornalisti per l'Europa e l'Asia centrale, Nina Ognjanova ha dichiarato che "nel Caucaso del Nord è in serio pericolo la sicurezza dei giornalisti indipendenti". Secondo il CPJ, dal 2000 in Russia sarebbero stati uccisi "su commissione" 13 giornalisti. La Russia "guadagnerebbe" il disonorevole terzo posto, dopo Iraq ed Algeria, tra i Paesi più pericolosi per la categoria (ammonterebbero a 47 i reporters uccisi negli ultimi quindici anni).

Alla lunga lista di giornalisti uccisi di recente in Russia, contenuta nel report annuale del CPJ "Attacks on The Press 2006", andrebbe con ogni probabilità aggiunto Igor´ Safronov, esperto in temi di armamenti e difesa del quotidiano Kommersant´, misteriosamente precipitato da una finestra del suo palazzo nel marzo di quest'anno.

Il caso Tlisova: prime rivelazioni e smentite ufficiali

A far scoppiare il caso era stato tre mesi fa il Sunday Times. Il quotidiano britannico rivela che una giornalista russa - Maria Ivanovna lo pseudonimo utilizzato - "esperta dell'area caucasica", avrebbe chiesto asilo politico negli Stati Uniti "dopo aver subito un tentativo di avvelenamento in patria". I blogger russi speculano sulla vera identità della reporter. I nomi più gettonati sono la giornalista di "Ekho Moskvy" e della "Novaya Gazeta", Julija Latynina, la sostenitrice di Garri Kasparov, Marina Litvinovič e Elina Ersenoeva di "Čečenskoe Obščestvo". Alcuni media russi, tra cui Kommersant', indicano proprio la capo redattrice per il Caucaso dell'agenzia d'informazione russa REGNUM, Fatima Tlisova. L'ipotesi viene avanzata su Livejournal persino dalla stessa Litvinovič, che rammentava un articolo de "La Vanguardia" sul presunto avvelenamento della Tlisova. Il sito web Stringer si spinge oltre, dicendo che "è noto che la Tlisova abbia presentato domanda di asilo politico in Occidente, perché si ritiene in pericolo di vita". In un comunicato apparso sul sito della stessa agenzia REGNUM, la reporter nega di aver mai contattato i giornalisti del Sunday Times e dichiara che la sua prevista permanenza oltre oceano è dovuta unicamente ad un periodo di studio presso un'Università statunitense.

Storie di minacce e di persecuzione

Solo tre mesi dopo la polemica riesplode. A fine giugno INOPRESSA riprende la notizia del New York Times, titolando: "Giornalista di Nal'čik denuncia al Congresso USA torture e sequestri nel Caucaso del Nord". La Tlisova si sarebbe recata negli Stati Uniti per raccontare gli abusi degli apparati di sicurezza russi. Dai racconti dei due giornalisti al Congresso americano emergono storie personali di persecuzione.
Il figlio sedicenne della Tlisova sarebbe stato arrestato l'ottobre scorso, proprio il giorno successivo all'uccisione della giornalista della "Novaya Gazeta" Anna Politkovskaja. Le autorità russe lo avevano inserito in una lista di simpatizzanti con i terroristi ceceni. Nell'ottobre del 2006, pochi giorni dopo l'arresto di suo figlio, si accorse che la porta di casa era stata forzata. La mattina successiva cominciò a sentirsi male, fino a perdere conoscenza. Le analisi all'ospedale diagnosticarono una grave insufficienza renale, nonostante gli ultimi test avessero fatto registrare valori nella norma. La Tlisova sostenne che gli intrusi le avessero avvelenato il cibo. Due mesi dopo un ultimo reportage su una misteriosa malattia che colpiva gli scolari di un villaggio del Caucaso, la giornalista partì per gli Stati Uniti.

La Gazeta GZT rivela però che i guai per la Tlisova erano cominciati già nel 1992, quando suo marito, volontario in Abkhazija durante il conflitto abkhazo-georgiano, fece amicizia con Shamil Basaev (che a quei tempi combatteva a fianco dei russi e contro le truppe georgiane) e con altri boeviki guerriglieri, ndc coi quali mantenne i legami per diversi anni. La sua famiglia divenne presto oggetto di osservazione da parte dei servizi segreti. Attenzioni che si fecero più intense da quando la Tlisova iniziò la sua attività giornalistica a Nal'čik: inizialmente con la "Vremja MN", poi con la "Novaya Gazeta" e con IWPR, Associated Press e da ultimo come caporedattrice dell'agenzia REGNUM.

I primi episodi inquietanti avrebbero avuto inizio nel 2002, dopo un suo articolo sugli abusi dei militari russi in Cecenia pubblicato sulla "Obščaja Gazeta". Dopo una serata in compagnia di amici venne aggredita da due sconosciuti sull'androne del palazzo. Ricoverata all'ospedale, la giornalista riportava alcune costole spezzate, una commozione cerebrale e diversi altri traumi.

Altre antipatie deve aver raccolto la denuncia - contenuta in alcuni reportage della Tlisova per l'agenzia Associated Press - delle torture dei boeviki detenuti in seguito all'attacco di Nal'čik (Kabardino-Balkarija) nel 2005. Poco tempo dopo la giornalista venne bloccata per strada da alcuni uomini, fatta salire a forza su un'auto con i vetri oscurati e condotta in un bosco in periferia. Per tre ore ricevette pesanti minacce anche fisiche. I sequestratori le avrebbero spento delle sigarette sui polpastrelli, "raccomandandole di scrivere meglio". Il fatto non venne denunciato alla polizia perché la reporter aveva riconosciuto alcuni ufficiali della locale sezione dell'FSB tra i sequestratori.

Jurij Bagrov, giornalista di Vladikavkaz (Ossezia del Nord-Alania), già collaboratore della Associated Press e della France Press, cominciò il suo lavoro di reporter nel 1999. Nelle sue corrispondenze aveva ventilato ipotesi sul coinvolgimento dell'FSB nel sequestro di cittadini ingusci e rivelato dati segreti sulla reale consistenza delle perdite delle forze russe nel corso del secondo conflitto ceceno. Le sue richieste di accreditamento per presenziare a conferenze stampa, incontri ufficiali e sedute dei tribunali vengono da allora puntualmente rifiutate. Un ostacolo che gli avrebbe impedito di svolgere l'attività giornalistica nei giorni del sequestro alla scuola n. 1 di Beslan. Il giornalista avrebbe denunciato persino telefonate di sconosciuti alla moglie: chiedevano di poter parlare con la "vedova Bagrova" (Prima-news, 2 luglio).

Nel 2004 Bagrov si vide sequestrare il passaporto dall'ufficio dell'UFSB dell'Ossezia del Nord, con l'accusa di falsificazione. Il tribunale lo condannò ad un'ammenda di 15.000 rubli, dichiarando che per ottenere la cittadinanza russa, dopo l'espatrio dalla Georgia, aveva falsificato il documento. Gazeta.ru riferisce che la sua richiesta di ottenere la cittadinanza venne definitivamente respinta dal Servizio federale per l'immigrazione nell'aprile scorso. Così da oltre un anno e mezzo si trova negli Stati Uniti.

Studentessa o rifugiata?

Oltre che dai siti dell'opposizione e da alcune agenzie di informazione, in Russia la notizia è stata trattata ampiamente dal solo giornale Kommersant'. Il segretario generale dell'Unione dei giornalisti, Igor Jakovenko, riferisce al quotidiano che la notizia della fuga dei giornalisti "non è affatto sorprendente, ma è una tendenza degli ultimi anni". Il direttore del Fondo per la difesa della Comunicazione pubblica, Aleksej Simonov, che pure si dice contrario ad un gesto così estremo, non se la sente di condannare i due emigranti, "stanchi di lottare per il diritto di poter esercitare la professione senza pericolo per la propria vita".

Si definiscono nel frattempo alcuni aspetti della vicenda. Sarebbe stato lo stesso Comitato, stando alle parole della coordinatrice del programma di aiuto ai giornalisti, Elizabeth Witchell (Radio Svoboda), ad aver agevolato la richiesta di Bagrov "contattando una fondazione americana che si è resa disponibile ad aiutarlo a stabilirsi negli Stati Uniti". La Witchell rivela che i due avrebbero ottenuto lo status di rifugiati politici ancor prima di recarsi negli Stati Uniti. Una procedura, quella per l'ottenimento della richiesta, che Kommersant' giudica "abbastanza semplice". La Witchell stessa ritiene che l'attesa per l'espletamento delle procedure richieda in tutto "dalle sei settimane ai sei mesi".

Il caso Tlisova non è comunque chiuso. Con una smentita analoga a quella già rilasciata a marzo, la giornalista ha dichiarato all'agenzia REGNUM: "di tutto ciò che dicono di me, è vera solo una cosa. Ho partecipato alla tavola rotonda al Congresso degli Stati Uniti. In America mi trovo per motivi di studio. Per il futuro ho in programma di continuare il lavoro sul Caucaso". Il direttore del Centro giornalistico in Situazioni Estreme, Oleg Panfilov, si dice sicuro che le recenti smentite siano dovute al timore per possibili ripercussioni sui familiari rimasti nel Caucaso del Nord.


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