Vecchie teorie e nuovi modelli interpretativi per comprendere gli equilibri geopolitici nello spazio post-sovietico. Georgia e Ucraina tra Nato, UE e progetti neoimperiali. Un commento
Come smembrare Ucraina e Georgia, così titola l'ultimo numero di Limes dedicato al "Progetto Russia". Un titolo sicuramente forte, ma in linea con il modello interpretativo storicamente adottato dalla rivista per leggere la geopolitica nello spazio post-sovietico, ossia la riproposizione - seppure in un contesto internazionale profondamente mutato rispetto a Yalta - dell'Allied Scheme of History.
Il nucleo centrale di "Progetto Russia" ruota intorno alle teorie neo-imperialiste di Vitalij Tretjakov, capo redattore di Politiceskij Klass.
Partendo dagli assunti che "la parabola dell'impero americano è discendente" e che "l'equilibrio della potenza non ha fondamento giuridico o morale ma è geopolitica allo stato puro", i disegni russi di smembramento di Ucraina e Georgia vengono presentati al lettore italiano come una sorta di ineluttabilità storica.
Prescindendo da qualsiasi considerazione su concetti di sovranità nazionale e di diritto internazionale, l'approccio "machiavellico" presentato risulta peraltro debole anche da un punto di vista logico-formale.
Conditio sine qua non per una politica imperialista è l'esistenza di uno stato che, in virtù della sua riconosciuta forza economica e militare, possa definirsi - usando le parole di Tretjakov - "potenza".
La Russia attuale, a ben vedere, non presenta pienamente le due condizioni.
Fernando Orlandi, in un articolo sul numero di aprile di EAST - "Quel che resta dell'Armata Rossa" - dimostra, dati alla mano, come l'apparato militare ex sovietico versi in uno stato di profondo declino e che difficilmente nuovi, necessari, innesti arriveranno prima di 10-15 anni.
Economicamente parlando, la situazione della Federazione non è affatto migliore.
Il PIL russo, proveniente quasi interamente dal settore energetico - a riprova di un'economia strutturalmente debole, dipendente da gas e petrolio ("The trouble with reliance on oil and gas", Stefan Wagstyl, Financial Times, 18 aprile 2008) - rappresenta solo il 2% di quello mondiale. Solo per fare un esempio il PIL della Cina è il 15% di quello mondiale ed è il risultato di un capitalismo di stato che ha fatto crescere importanti realtà industriali come Huawei, Lenovo e ZTE.
L'economista russo Andrej Illarionov sostiene addirittura che, in seguito alla politica economica di Putin, priva di elementi di modernità, la Russia viva la "terza disgregazione" ("tretij raspad"), dopo quella del 1917 e del 1991.
Sovranità nazionale, diritto internazionale, democrazia
"Capisci, George? L'Ucraina non è nemmeno uno stato! Che cos'è l'Ucraina? Parte del suo territorio è Europa orientale. Ma l'altra parte, quella più importante, gliel'abbiamo regalata noi!"
Così l'ex presidente russo Putin rivolgendosi a George W. Bush al summit NATO di Bucarest del 4 aprile.
Il niet della Russia all'ingresso nell'alleanza atlantica di Georgia e Ucraina ha trovato sostegno più o meno esplicito in Francia e Germania, timorose di compromettere i buoni rapporti commerciali con Gazprom.
L'Italia, a dispetto dell'atlantismo sbandierato dal nuovo esecutivo, qualche settimana più tardi, compiva una scelta ancora più forte. Il ritorno a palazzo Chigi di Silvio Berlusconi veniva salutato da una visita privata dell'amico Putin nella villa sarda del premier italiano.
Puntuale il commento rilasciato a Jeremy Bransten di Radio Free Europe (RFE) da Oxana Pachlovska, docente di Ucrainistica alla Sapienza di Roma: "Per l'Ucraina questo è il peggior scenario possibile perché prima di tutto Berlusconi è un populista. Non ha idee politiche o ideologie, l'est per lui è territorio di conquista economico. Per ciò che riguarda la Russia, Berlusconi ha avuto relazioni idilliache con Putin anche quando tutti ad Ovest lo criticavano per la guerra in Cecenia".
Se Kiev non potrà contare sull'appoggio italiano per ottenere la membership NATO, Tbilisi versa in condizioni forse peggiori. La Georgia è infatti palesemente ignorata dai media italiani, anche quando - è il caso delle scorse settimane - lo scontro con la Russia ha fatto temere lo scoppio di un vero e proprio conflitto.
Al di là del falso storico dell'Ucraina come regalo russo - il discorso, seppure con opportuni distinguo, lo si potrebbe fare per la sola Crimea (per la verità, la Crimea è la terra dei Tatari), non certo per il Donbass da sempre territorio ucraino (ma sottoposto alla russificazione nella duplice variante zarista e sovietica) e per altre aree - la frase dell'ex presidente merita una seria riflessione.
Stephen Blank, professore di Studi Strategici dell'US Army War College, in un articolo su RFE del 14 maggio, sottolinea che le asserzioni di Putin "riflettono la convinzione che né la Georgia né l'Ucraina né le altre repubbliche ex-sovietiche, sono realmente sovrane".
La stessa concessione di passaporti russi ai cittadini delle repubbliche georgiane separatiste di Ossezia del Sud e di Abkhazia, non riconosciute da nessun organismo internazionale, è una palese violazione delle norme di diritto internazionale e del Trattato di Helsinki del '75, pietra miliare per la costruzione della sicurezza europea.
Recentemente la rivista "Russkij Žurnal" di Gleb Pavlovskij, uno dei "manager" più potenti del Cremlino, ha pubblicato l'articolo "Operazione Arancia meccanica" di Igor Džadan che offre uno scenario minuzioso dell'occupazione militare dell'Ucraina, con l'invito all'uso di armi nucleari e di fosforo bianco (v. Operazione Arancia meccanica).
La conclusione cui giunge Blank è che proprio la politica neo-imperiale di Mosca e le vessazioni inflitte alle ex repubbliche "sorelle" - violazioni di spazi aerei, rivendicazioni di territori, tagli di fornitura energetici - dimostrano come l'aspirazione di Georgia e Ucraina a trovare rifugio sotto l'ombrello NATO sia assolutamente legittima.
Le colpe dell'Europa
Viene da chiedersi come mai l'Europa, che manifesta - seppur timidamente - solidarietà al Dalai Lama, si dimostri piuttosto tiepida e finga di non vedere le violazioni che avvengono in Georgia e Ucraina.
Al di là delle motivazioni economiche, che portano la maggior parte dei governi europei a essere concilianti con Mosca, ciò che sorprende, specie in Italia, è l'atteggiamento della stampa.
Illuminante l'analisi condotta da Oxana Pachlovska nel paper "Tra comunismo e globalizzazione: crisi della coscienza critica della cultura", (Studi Slavistici I, 2004).
La Pachlovska, oltre ad individuare in maniera nitida le ragioni della "rinascita della xenofobia di Stato" nella Russia post-eltsiniana, va al cuore del problema quando parla degli errori dell'Occidente: "Uno degli errori di valutazione da parte dell'Occidente è stato quello di applicare proprie categorie politiche a fenomeni del tutto peculiari propri della società postcomunista. A partire da termini quali "destra" e "sinistra" - una "destra" presumibilmente "nazionalista", quando non scopertamente "fascista", e una "sinistra" sempre erede di una commendevole sensibilità sociale - il quadro non poteva risultare stravolto e assolutamente non in grado di leggere la situazione reale. In paesi come l'Ucraina e la Bielorussia, l'orientamento filo-occidentale è "nazionale" (e non nazionalista!) solo nel senso che teme la crescita in Russia di quella che è una vera destra, gruppi paramilitari, forme drammaticamente riconducibili ad un sostanziale neonazismo, intento a soffocare qualsiasi anelito ad uno sviluppo più autonomo e democratico. Nei contesti ortodossi è l'estrema sinistra (sovietofila e/o slavofila) ad essere fautrice di ideologie neo-razziste, con l'antisemitismo ad occupare un posto di preoccupante rilievo."
Nuovi modelli di lettura
La questione sollevata da Pachlovska è di fondamentale importanza perché "culturale".
Se l'Occidente non si libererà di certi schemi interpretativi obsoleti il rischio è di commettere errori abissali dalle drammatiche conseguenze politiche e sociali.
Per spiegare gli equivoci cui si va incontro utilizzando vecchie categorie interpretative citerò l'articolo di Sinatti "L'ucraina in bilico tra Russia e Occidente", nell'ultimo numero di Limes.
Per stigmatizzare il comportamento dell'attuale dirigenza ucraina, Sinatti cita lo scrittore Aleksandr Solzhenitsyn, forse il più famoso dissidente sovietico. L'equazione implicita è che se Solzhenitsyn attacca Juschenko e Tymoshenko, allora è legittimo domandarsi se l'Ucraina non sia davvero in mano a un manipolo di nazionalisti russofobi.
Sinatti non accenna al fatto che l'autore di Arcipelago Gulag si sia da tempo unito al partito dei negazionisti dell'Holodomor, la carestia pianificata da Stalin che sterminò circa 7 milioni di ucraini nel '32-'33.
Omette anche di raccontare che Solzhenitsyn, fervente ammiratore di Putin, è oggi tra i più strenui sostenitori di un'unione tra Russia, Bielorussia, Ucraina e Kazakistan in barba al rispetto delle identità nazionali e culturali dei quattro popoli.
Questo esempio evidenzia in maniera lampante come la dialettica sovietico-dissidente, ucraino-russo, fascista - comunista non sia più in grado di farci comprendere ciò che succede nell'ex URSS.
Ci si aspetterebbe che un ex dissidente sovietico, che ha sofferto le privazioni derivanti dal totalitarismo, sia a favore della democrazia mentre Solzhenitsyn sembra vagheggiare un ritorno all'epoca zarista.
La stessa contrapposizione linguistica risulta fallace.
Qualche giorno dopo il meeting NATO chi scrive ha avuto modo di assistere, a Simferopoli, a una pacifica manifestazione di protesta del Partito Nazionale Ucraino contro l'ambasciata russa.
I manifestanti erano cittadini di Crimea di lingua russa che da democratici rivendicavano il diritto degli ucraini all'autodeterminazione, denunciando le gravi ingerenze del Cremlino.
Lo stesso discorso sui russofoni, dunque, non dovrebbe ridursi solamente a cifre e percentuali.
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