Si è conclusa a Srebrenica la settimana internazionale sulla memoria. Grande partecipazione della società civile e degli enti locali italiani. Il lungo percorso coinvolge gradualmente gli abitanti della città impegnati tra vita quotidiana e memorie recenti
Dal 27 agosto al 1° settembre decine di rappresentanti della società civile italiana hanno partecipato alla settimana internazionale "International Cooperation For Memory", tenutasi a Srebrenica su iniziativa della Fondazione Langer di Bolzano. Quale l'atmosfera in città e la partecipazione locale? Un dialogo con due partecipanti: Gabriel Auer, della Fondazione Langer ed Elvira Mujcic, originaria di Srebrenica e autrice del libro "Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica".
Gabriel, qual è stato il livello di partecipazione? Srebrenica come ha vissuto questa presenza straniera e gli eventi della settimana?
La partecipazione straniera è stata prettamente italiana, con circa 90 persone di varia provenienza: volontari di associazioni e gruppi, rappresentanti istituzionali di città italiane, ricercatori o esperti di settore. A questi ogni giorno si aggiungevano circa 20-30 persone in rappresentanza di associazioni locali, come l'associazione "Donne di Srebrenica" e, ovviamente, visto che è nostro partner e ha organizzato l'evento in loco, l'associazione Tuzlanska Amika. Tra i rappresentanti istituzionali presenti ricordo, tra gli altri, Carla Giacomozzi del Comune di Bolzano, la quale lavora presso l'archivio storico di Bolzano e che ha introdotto il seminario dedicato al lavoro di documentazione sulla memoria; Massimo Luciani, assessore alle politiche comunitarie del comune di Pescara e Patrizia Zanasi, assessora alla cultura del Comune di Marzabotto, in rappresentanza di due enti locali che sostengono il nostro progetto.
La popolazione ha mostrato sicuramente molta curiosità. Anche perché abbiamo organizzato l'alloggio di tutti coloro che arrivavano da fuori presso le famiglie di Srebrenica e questo contatto ha facilitato la comunicazione diretta. Significa che tali famiglie erano informate dell'evento, mentre ci siamo resi conto che molta parte degli abitanti della città non sapevano molto della settimana internazionale sulla memoria. C'è da dire che allo stesso tempo questa numerosa presenza internazionale, che ogni giorno si muoveva per la città, ha portato una ventata di novità. Parlare di partecipazione della cittadinanza è però un secondo livello.
In che senso?
Mi riferisco al fatto che una certa parte della città non conoscesse in maniera approfondita l'evento; questo lo spiego principalmente con due ragioni. Innanzitutto, non è usuale per la gente comune parlare del tema della memoria da un punto di vista "scientifico" in luoghi come seminari e workshop. Inoltre, dobbiamo pensare che la vita quotidiana di queste persone è molto dura, non solo per le condizioni economiche in cui versa la maggioranza di loro ma anche per l'atmosfera in cui vivono. La città si può ancora definire "fantasma", ferma in una condizione di attesa.
Questo si riflette spesso negli atteggiamenti dei singoli cittadini - come ci è stato raccontato dalle associazioni locali - che mostrano quasi una "letargia" mentale, tanto che è molto difficile coinvolgerli e farli partecipare attivamente ad iniziative che esulano dalla loro quotidianità. Farli partecipare in numero significativo a dibattiti, in cui si devono intervenire, parlare in prima persona, credo non sia ancora realistico; potrà esserlo dopo il primo passo fatto con la settimana internazionale, che è servita per parlare di temi ben precisi, per capire come viene percepita la nostra presenza e per cercare di coinvolgere il più possibile le associazioni locali. Il secondo passo sarà in futuro quello di valutare l'impatto che ha avuto questa settimana di lavoro, con dibattiti e con momenti culturali e di socializzazione, attraverso un lavoro di feed-back da parte dei partecipanti stranieri e locali.
Rispetto all'atmosfera posso aggiungere che ho colto reazioni e atteggiamenti diversi, anche fuori dai seminari. Abbiamo percepito che persistono delle divisioni profonde, nonostante durante la settimana diversi cittadini di Srebrenica ci abbiamo raccontato che rispetto a due anni fa c'è più desiderio di socialità e quindi più vita nei ristoranti, nei luoghi pubblici e nelle strade.
A proposito di momenti di socialità e culturali: Elvira ci racconti quale attività avete realizzato, con Roberta Biagiarelli, autrice del documentario "Souvenir Srebrenica"?
Siamo stati a Srebrenica per l'avvio del progetto "Il tempo della festa", sostenuto in questa fase dalla Fondazione Langer, le cui attività erano inserite anche nell'ambito dei workshop della settimana internazionale sulla memoria. Ciò che abbiamo realizzato si inserisce in una trilogia per la realizzazione finale di una rappresentazione teatrale, composta da: "Il tempo della festa, "Storie portate dall'acqua", e in ultimo "Storie d'aMare". In questi giorni abbiamo raccolto le testimonianze di persone differenti per sesso, età, appartenenza religiosa, sulle feste che si celebravano prima dell'ultima guerra: cosa mangiavano, come si vestivano, quali erano le differenze tra le feste laiche e quelle religiose. Abbiamo montato una tenda di fronte al Centro culturale e lì abbiamo ospitato i passanti, o coloro che avevamo invitato, a bere del caffè italiano e a mangiare biscotti tipici portati da diverse regioni italiane, proprio con l'intento di effettuare uno scambio tra culture. Dopodiché, li abbiamo intervistati cercando di farli tornare indietro con la memoria a prima della guerra.
Quindi, anche questo un lavoro sulla memoria. Come hanno reagito le persone che hanno accettato di testimoniare?
Elvira: L'intento del progetto è quello di cercare di portare le persone a ripercorrere quei momenti del passato in cui stare insieme e frequentarsi erano parte della normalità, come nel caso delle feste. Cercare di sganciarle dalla memoria della guerra recente, dei traumi subiti e delle divisioni che ne sono seguite, tentando di spingere alla riflessione su come questi cinque anni di guerra hanno potuto cancellare decine di anni di bei momenti. Il nostro tentativo è portare i singoli a guardare da un punto di vista nuovo che, non domani o dopodomani ma probabilmente tra molto tempo, li spinga a trovare vie di convivenza anche sulla base di tutto ciò che in passato li univa.
Raccogliere le testimonianze non è stato facile. Numerosi intervistati hanno avuto difficoltà a superare il ricordo della guerra recente, come fosse per loro un punto di non ritorno, che ha scisso le loro vite tra il prima - che sembra far parte di un'altra vita - e il dopo, onnipresente e di cui non riescono a liberarsi. Con alcune non siamo riusciti a superare questo primo ostacolo ma la maggior parte poi si è lasciata andare e ha mostrato molto piacere a parlare. Durante questo lavoro, abbiamo notato con sorpresa molta curiosità: sono state tante le persone che passavano per caso davanti alla nostra tenda, che si informavano su cosa stavamo facendo e poi si facevano coinvolgere.
Ho visto con piacere che sono state molte le persone serbo-bosniache disposte a parlare di sé. Non diffidavano, non avevano il timore di essere accusate di ciò che è accaduto a Srebrenica o di sentirsi genericamente messe dalla parte del torto. Hanno parlato delle loro feste di allora, davanti alla telecamera. Questo è stato per me il segno tangibile che rispetto a due anni fa la situazione sia un po' cambiata. Tra gli intervistati donne e uomini di tutte le età, gli uomini quasi più numerosi delle donne, con una grande voglia, oltre che di parlare, di stare lì a socializzare.
Gabriel: Abbiamo avuto la dimostrazione del bisogno di socialità anche durante la partita di calcio che si è tenuta a metà settimana, organizzata dall'associazione di Torino "Nema frontiera". Si sono visti tantissimi giovani, in questo campo di calcio dove nel 1993 erano morti sotto le granate 80 persone, tra giovani e bambini che stavano giocando. La partita si è disputata tra la squadra italiana "Nema frontiera" e la squadra bosniaca, di cui faceva parte anche il sindaco di Srebrenica, che si è data il nome di "Visti" per sottolineare il problema del visto di cui hanno bisogno per uscire dalla Bosnia Erzegovina.
Come procederete in futuro con i vostri progetti?
Elvira: Il lavoro di raccolta di testimonianze fatto a Srebrenica, si intreccerà poi con alcuni lavori di basati sulla letteratura, ex-jugoslava e italiana, che realizzeremo nella fase delle "Storie d'aMare": storie che hanno in comune il mare Adriatico ma allo stesso tempo storie da "amare" perché rappresentano l'incontro tra le due culture adriatiche. Pensiamo di percorrere questo intreccio attraverso scrittori e poeti conosciuti e meno conosciuti ma anche attraverso testi di memorie di persone che hanno vissuto la guerra.
Gabriel: La Fondazione Langer prevede a breve un evento a Pescara, dato che il Comune e la Regione Abruzzo sono partner del progetto "Adopt Srebrenica", oltre alla Regione Trentino Alto Adige e il comune di Marzabotto. Voglio ricordare a questo proposito che in questi giorni la città di Marzabotto ha stipulato un patto di amicizia con Srebrenica. Simbolicamente importante, anche per il lavoro che la Scuola di Pace di Montesole fa da anni nell'ambito della rielaborazione del conflitto e della riconciliazione.
Dopodiché pubblicheremo i risultati dei seminari e dei workshop tematici, oltre che della tavola rotonda nella quale si è discusso di diversi argomenti: ruolo e funzione della memoria per le vittime, prevenzione dei conflitti, democratizzazione e riconciliazione. Parallelamente ci impegneremo a continuare con il progetto "Adopt Srebrenica", che prevede l'apertura di un centro internazionale di formazione per giovani, quindi uno spazio di documentazione e ricerca ma anche luogo interculturale per i giovani di Srebrenica, della Bosnia Erzegovina e di giovani provenienti dall'estero.
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