Un documentario che racconta la vita di Slavica e Xhevdet. Entrambi in Kosovo, ma divisi dal confine invisibile segnato dalla storia e dalla guerra. Quando i progetti della cooperazione si fanno video
Il documentario "Niente a nessuno" è girato nei giorni immediatamente precedenti e successivi alla dichiarazione d'indipendenza del Kosovo, lo scorso febbraio. La telecamera però non si sofferma nelle stanze ovattate della diplomazia e delle conferenze stampa ma gira per le strade della città di Peja/Peć assieme a Xhevdet, un uomo albanese di mezza età e Slavica, signora serba del villaggio di Goraždevac. Nel Kosovo di oggi serbi e albanesi non hanno occasioni di contatto e possibilità di condivisione. Xhevdet e Slavica hanno invece in comune il fatto di essere persone "normali". Persone libere capaci di pensare senza pregiudizi e di sognare una vita dignitosa per se stessi e per tutti gli abitanti del Kosovo. Il documentario è un progetto dell'Area elaborazione e trasformazione del conflitto dell'Associazione Trentino con il Kosovo. «Ci occupiamo di far riavvicinare persone appartenenti alle diverse comunità che abitano il Kosovo» racconta Elbert Krasniqi, coordinatore di questa area di lavoro «nelle nostre attività coinvolgiamo non solo le due comunità principali, serbi e albanesi, ma anche membri persone appartenenti alle altre comunità del Kosovo tra cui rom e bosniaci».
Da dove nasce l'idea di realizzare un documentario?
Alcuni mesi fa abbiamo accompagnato una ragazza di Goraždevac nel villaggio dov'era nata. Distava qualche decina di chilometri ma non ci era mai stata dal 1999, dalla guerra. Ha iniziato a piangere. Ci siamo allora detti che era importante mostrare a tutti questa situazione di sofferenza, in particolare relativa alla libertà di movimento. E mostrare che in Kosovo tutti hanno sofferto, non solo una parte. Da qui il titolo "Niente a nessuno".
Qual è la situazione rispetto alla libertà di movimento nell'area di Peja?
Nell'area di Peja gran parte della comunità serba risiede in alcuni villaggi ai margini della città. Quello più esteso è Goraždevac, dove abitano circa 1000 persone. A tutt'oggi non si sentono sicuri nel muoversi al di fuori del circondario dei loro villaggi.
Per questo motivo una delle nostre attività è quella di accompagnare queste persone dei villaggi, in città, a Peja. Vi si recano per fare un giro, far visita a qualcuno o magari per fare acquisti. Però non se la sentono ancora di farlo da soli. Attraverso questa microattività riusciamo anche a mostrare a chi vive a Peja che chi viene da Goraždevac è come loro e viceversa.
Le cose comunque stanno cambiando. In particolare negli ultimi 3 o 4 mesi. Siamo in una nuova fase. Adesso alcuni iniziano a muoversi in città da soli: con le proprie auto, con i mezzi pubblici o in bicicletta. Fino al marzo scorso vi era ancora una situazione molto difficile.
Come spiegare questo cambiamento?
Io personalmente ritengo sia correlato al processo di definizione dello status del Kosovo. Prima della dichiarazione di indipendenza forse chi viveva nelle enclaves era concentrato sui negoziati e l'obiettivo era quello di non mollare sulla questione dell'indipendenza. La sensazione attuale invece è che dopo l'indipendenza in molti abbiano solo pensato ad alleggerire la loro vita quotidiana, a renderla più facile. Ed è più semplice fare la spesa a pochi chilometri di distanza piuttosto che a Mitrovica nord.
Quindi l'indipendenza ha avuto dei benefici sulla comunità serba?
Nei giorni successivi all'indipendenza molti si aspettavano che i serbi in massa avrebbero abbandonato le enclave. Noi come organizzazione abbiamo ritenuto comunque di dover continuare ad operare come facevamo prima. Dopo qualche mese di forte incertezza, almeno nell'area di Peja, abbiamo notato un miglioramento per quanto riguarda la libertà di movimento. E' presto però per dire quanto abbia influito su questo la dichiarazione di indipendenza.
Ma negli ultimi anni si è trattato di un effettivo problema di sicurezza per le minoranze o piuttosto di una percezione di insicurezza?
Difficile dare una risposta. A mio avviso i due elementi si sono sovrapposti. Sicuramente il Kosovo non è ancora un posto sicuro dove vivere. Se partiamo dal 1999 c'erano molte ragioni per un appartenente alle minoranze per temere per la propria incolumità. Ad esempio nel 2004, è stato ucciso un ragazzo che faceva il bagno in un torrente, che passa proprio ai margini del villaggio di Goraždevac. Poi però la tensione è scesa e per la comunità serba è rimasto sopratutto un grosso blocco psicologico. I piccoli incidenti subiti da chi si recava a Peja, come gli insulti o i sassi sulle auto, non facevano che confermare queste paure.
I due protagonisti del documentario sono una donna che vive a Goraždevac e un uomo albanese che abita in città, a Peja. Persone che hanno deciso a loro modo di superare i confini che dividono le due comunità. Quanto sono rappresentativi della realtà?
Non tutte le persone del Kosovo la pensano come i due protagonisti. Le riteniamo però un buon esempio. E' la vita di chi desidera vivere ancora assieme.
L'autore è un giovane regista di Belgrado, come è riuscito a relazionarsi con la comunità serba e con quella albanese del Kosovo?
Darko è veramente una persona speciale. Però non è stato facile nemmeno per lui lavorare in questo contesto. Credo comunque che se gli chiedessimo con chi ha faticato di più risponderebbe con la comunità serba di Goraždevac. Ha provato in molti modi a spiegare loro le ragioni alla base di questo lavoro ma molti lo accusavano di non essere "un vero serbo", che il suo congnome, Soković, non era veramente serbo e cose del genere.
Come gruppo di lavoro promotore dell'iniziativa, quali condizioni avete posto?
Avevamo deciso di utilizzare lo strumento del documentario per parlare di libertà di movimento. Ma ci serviva un regista in grado di realizzare il lavoro. Abbiamo impostato una cornice all'interno della quale volevamo questo lavoro venisse fatto. Poi gli abbiamo lasciato grande libertà, supportandolo dal punto di vista logistico e fornendogli dei contatti.
"Niente a nessuno" è già stato proiettato in alcune scuole di Peja. Quali le reazioni?
Per prima cosa abbiamo mostrato il documentario ai nostri partner internazionali, in particolare al Tavolo Trentino con il Kosovo. Verso la fine di settembre abbiamo iniziato a mostrarlo anche nelle scuole superiori di Peja, non prima di aver reso partecipe di questo il responsabile dell'assessorato comunale per l'educazione, che ci ha fornito una lettera di sostegno.
Ogni proiezione era anticipata da una nostra breve presentazione su chi eravamo e sui nostri progetti. Poi, dopo aver visto il documentario, lasciavamo spazio al dibattito e le domande sono sempre state molte. Il nostro tentativo è sempre stato di fare in modo che le risposte venissero date dagli stessi compagni di classe.
Sono emersi punti di vista molto differenti. Vi sono ragazzi che accettano i contenuti del documentario e, nonostante il passato, affermano sia ancora possibile vivere insieme. Ed altri che invece negano questa possibilità. Alla domanda se loro fossero disposti ad accettare nella loro classe un ragazzo serbo il dibattito si fa sempre più animato. C'è chi afferma non gli rivolgerebbe la parola, e chi dice che non avrebbe problemi.
Cosa apprezzi di più e cosa invece ti sembra più debole in questo lavoro video?
E' bello che venga raccontata la storia di persone come Slavica e Xhevdet, persone pronte a vivere la propria vita. Purtroppo le loro vicende personali non sono rappresentative delle loro comunità di riferimento. E questo forse è anche il limite di questo lavoro.
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