Le minoranze sessuali non saranno di moda nella cooperazione internazionale, ma c'è di più - e di meglio - che l'Europa può fare. Parliamo con Svetlana Ðurković di diritti umani, ONG, e spettri neocolonialisti

22/09/2009 -  Irene Dioli

Se dovessi definire te stessa e il tuo lavoro di attivista, useresti la nozione di queer, LGBT, o qualcos'altro?

Per me uso la parola queer, e ti spiego perché. Sebbene la società identifichi ognuno di noi a seconda del sesso, del genere e dell'orientamento sessuale, i vari livelli della mia auto-identificazione sono molto più complessi e infrangono le norme sotto diversi aspetti. Pertanto, le varie parti della mia identità e del mio lavoro di attivista e di ricercatrice sono orientate verso la queer theory, che si occupa della costruzione delle norme legate a genere e sessualità. D'altro canto, essendo un'attivista per i diritti umani, sono impegnata nel difendere i diritti delle persone LGBTIQ, che in questo paese sono abbandonate a se stesse, e hanno diritto alla visibilità. Nel mio paese, dove l'identità della maggior parte delle persone è segmentata sulla base della religione e della nazionalità, è molto facile identificare qualcuno anche solo sulla base del nome e della lingua. La gente non chiede chi sei, lo dà per scontato. La nostra organizzazione si occupa proprio del diritto di ognuno ad auto-definirsi e ad auto-identificarsi, anche quando le identità non rientrano all'interno delle norme sociali e della cultura comune.

Quali sono le tue principali attività?

Le mie attività consistono principalmente nell'organizzare campagne di visibilità mediatica e di sensibilizzazione dell'opinione pubblica, condurre workshop e seminari rivolti alla popolazione LGBTIQ e fare pressione nei confronti delle istituzioni affinché vengano approvate leggi contro la discriminazione e a favore della parità dei generi. Inoltre realizziamo studi e rapporti informativi (per esempio per quel che riguarda l'istruzione o i libri di testo) e facciamo parte di diversi consigli all'interno della società civile, in modo più o meno ornamentale. È davvero un peccato che ci sia una sola organizzazione come questa in Bosnia Erzegovina, sarebbe più semplice per noi se ce ne fossero di più, e con diverse tipologie di esperienza. Nella situazione attuale noi dobbiamo reagire a tutto, a qualsiasi problema coi media, a qualsiasi dichiarazione politica, o nessuno lo farà.

Per te l'attivismo è un lavoro a tempo pieno?

Sì, in realtà ho lavorato sui progetti dell'ONU per i diritti umani mentre stavo già lavorando per Organisation Q, che assorbiva molto del mio tempo nonostante all'epoca non venissi pagata. Adesso sono sette anni che mi dedico completamente all'organizzazione.

Quali pensi che siano stati i principali risultati di questi anni di lavoro?

Uno dei risultati più importanti è stato ottenere visibilità sui media in un modo che non fosse dispregiativo. È stato possibile dopo il mio coming out, perché finalmente i media hanno avuto qualcuno con cui parlare. In secondo luogo, siamo riusciti a includere le questioni legate ai transgender e agli intersex, non perché avessimo membri intersex, ma perché andava fatto. Inoltre siamo state una delle venti organizzazioni che hanno dato il via alla creazione di un network a livello regionale, che al momento però è inattivo.

E i problemi principali?

Più visibilità causa più violenza, come abbiamo potuto vedere lo scorso settembre al Sarajevo Queer Festival. Un altro problema è la difficoltà a coinvolgere le persone nelle nostre attività. Ovviamente, quando investiamo su qualcuno mediante workshop e seminari, non lo facciamo perché tutti quanti diventino attivisti e salvino il mondo, ma perché siano informati e in grado di mandare avanti le proprie vite. E in effetti molti di loro sfruttano queste conoscenze per avere una vita migliore, ad esempio trovando lavoro da un'altra parte e lasciando il paese. È per questo che in pochi sono disposti a rimanere e a essere apertamente coinvolti come attivisti, e anche in quel caso non è facile trovare qualcuno che sia esperto a livello professionale e comunicativo, il che è fondamentale quando devi sviluppare un'azione di lobbismo e di visibilità positiva per le minoranze sessuali in un paese così tradizionalista.

In quanti siete adesso?

In totale posso dire che siamo un gruppo di venti persone, di cui solo tre dipendenti a tempo pieno dell'organizzazione.

Relativamente all'aspetto finanziario dell'organizzazione, da dove provengono i fondi?

Abbiamo ricevuto la prima donazione prima di registrarci, da parte dell'Heart and Hand Fund. Quando poi ci siamo registrati, le prime sovvenzioni ufficiali sono arrivate dallo Swedish Helsinki Committee for Human Rights e da COC e HIVOS. Abbiamo ricevuto donazioni anche dall'Astraea Lesbian Foundation for Justice e dal Global Fund for Women (entrambe americane) e dalle ambasciate svizzera e olandese. Non abbiamo mai ricevuto fondi dal nostro governo.

Puoi dirmi di più riguardo al network regionale che hai citato, e spiegarmi le ragioni per cui al momento non è attivo?

È stato creato nel settembre 2003 e comprendeva sia singoli attivisti sia organizzazioni provenienti da tutta l'area dell'ex Jugoslavia, dal momento che questi paesi condividono storia e lingua. Ci riunivamo quattro volte all'anno e avevamo dato il via a un dialogo su un progetto regionale che includeva, ad esempio, formazione in materia di pubblica difesa, azioni di lobbismo nei confronti delle politiche pubbliche e metodologie dell'attivismo. Alla fine, le attività si sono semplicemente ridotte fino a interrompersi, semplicemente perché tutti eravamo impegnati sia a livello nazionale sia regionale, e non avevamo né le risorse né le energie per portare avanti entrambe le cose. Adesso è come se ci fosse un momento di silenzio, come succede quando tutti parlano allo stesso tempo e ogni tanto c'è una pausa. Adesso noi ci troviamo in quella pausa e stiamo aspettando che qualcuno ricominci a parlare per riprendere in mano il discorso regionale, che sarebbe anche necessario, visto che un network a livello regionale ci consentirebbe di migliorare la leadership e il coordinamento delle iniziative.

Che tipo di contatti avete con i paesi al di fuori dell'area ex jugoslava?

Abbiamo contatti con altre organizzazioni e istituzioni al di fuori della regione, anche a livello europeo. Sto cominciando a pensare che dovremmo collaborare di più con organizzazioni del Sud America, perché forse troveremmo più argomenti in comune con loro e trarremmo maggiori benefici da questo tipo di interazione. La nostra società ha un enorme fardello di ricordi di oppressione, di repressione e di censura nella sua storia recente e da questo punto di vista la nostra storia è più simile a quella del Sud America, perché l'Europa occidentale questo fardello non ce l'ha, essendo stata una potenza coloniale ed essendo tuttora in gran parte una potenza neo-coloniale. Pertanto, penso che potrebbe essere positivo venire a conoscenza di diverse tattiche di attivismo che abbiano avuto successo in Sud America, piuttosto che, ad esempio, adottare modelli provenienti dal Regno Unito, perché viviamo in contesti diversi, non solo relativamente alla popolazione LGBTIQ, ma in generale. Ad esempio nel nostro paese, dove dobbiamo avere a che fare con tantissima corruzione e un governo debole, gli attivisti non hanno nessuno che li sostenga in termini di partiti politici o di governo. Di fatto il nostro ostacolo è il governo, mentre non è così nel Regno Unito o in Francia, dove sono i governi stessi a spingere per ottenere un cambiamento.

Quali sono i problemi che incontrate quando collaborate con le organizzazioni internazionali?

Dato che non possiamo contare sulle istituzioni nazionali, è fondamentale che le organizzazioni internazionali vengano coinvolte a livello regionale e che promuovano i diritti umani. Tuttavia, devo nuovamente utilizzare il termine neo-colonialismo. Infatti può capitare che un'organizzazione internazionale consideri la sua controparte locale un semplice esecutore piuttosto che un partner, ma se l'attività non viene portata avanti su base partecipativa fin dall'inizio, il rapporto e l'attività stessa diventano problematici, sotto diversi punti di vista. Innanzitutto, in termini di atteggiamento: se un paese sta sviluppando il proprio percorso verso gli obiettivi di inclusione e di garanzia dei diritti umani che sono già stati raggiunti altrove, non significa necessariamente che gli attivisti locali siano meno preparati e meno in grado di dare forma al proprio lavoro. Hanno bisogno di essere aiutati a sviluppare piena autonomia, non pilotati. Un ulteriore problema riguarda i risultati reali delle attività: se un'organizzazione internazionale sta semplicemente cercando un nuovo paese dove mettere in pratica una determinata strategia o un determinato modello precedentemente applicato a certi paesi nell'Europa occidentale, senza prendere in considerazione le specificità e i contributi locali al momento di pianificare un progetto, probabilmente non avrà successo, non farà la differenza, o non sarà sostenibile. E noi siamo quelli che rimangono ad affrontare le conseguenze dopo che il partner internazionale ha usato il lavoro e se n'è andato. Da un lato capisco che anche le ONG internazionali debbano rendere conto ai loro donatori presentando concetti, strategie e risultati chiari, ma lo scambio deve avvenire in entrambe le direzioni.

Puoi farmi qualche esempio di situazioni in cui ci sia stato un conflitto di approcci?

Per esempio, in contesti internazionali abbiamo lottato per promuovere una strategia inclusiva che si occupasse anche di questioni transgender e intersex, oltre che dei diritti di gay, lesbiche e bisessuali. Abbiamo incontrato molta resistenza nonostante si trattasse di un passo fondamentale, perché un'organizzazione incentrata sui diritti umani semplicemente non può lavorare con una strategia che abbia elementi di esclusione. Un altro problema che ho riscontrato durante la formazione con partner internazionali riguarda l'uso di diverse metodologie: per esempio, il nostro approccio è strettamente legato ai diritti umani, in quanto è adatto al contesto nel quale operiamo. Qualsiasi cosa facciamo, in termini di politica pubblica e lobbismo, si basa su un approccio incentrato sui diritti umani. La piattaforma dei diritti umani ci consente di avere maggiore influenza nel nostro rapporto con le istituzioni, perché il governo deve rendere conto delle sue politiche in materia di diritti umani, mentre non è obbligato a farlo per quel che riguarda la diversità sessuale o il femminismo, che sono concetti problematici in un contesto tradizionalista. Ciononostante, ci è capitato di lavorare con partner internazionali che usavano un approccio basato sull'analisi SWOT (punti di forza/debolezze/opportunità/minacce) e non prendevano in considerazione il nostro approccio, finendo così per discutere sulle questioni da affrontare. Per esempio, l'interesse da parte dei media, o la mancanza di tale interesse, non è necessariamente una questione legata ai diritti umani, mentre il linguaggio spregiativo usato dai media sì... ma qui la questione fondamentale è che la "valutazione dei bisogni" non può essere fatta esternamente da qualcuno che non ha mai vissuto qui o che non ha familiarità con il nostro contesto culturale.

Nella tua esperienza, com'è cambiata la situazione nelle varie fasi storiche, per esempio prima e dopo il socialismo o le guerre?

In altri paesi dell'ex Jugoslavia, come ad esempio la Serbia, le guerre hanno enormemente danneggiato la società civile, ma il caso della Bosnia Erzegovina è leggermente diverso. Non sono a conoscenza dell'esistenza di nessuna organizzazione dal basso per i diritti umani prima del 1991. La guerra e la conseguente mobilitazione, specialmente del movimento femminista, hanno preparato il terreno per lo sviluppo di ogni tipo di associazione per i diritti umani, per le donne, i bambini, i rifugiati, le minoranze, e di conseguenza si è creato uno spazio per affrontare anche la diversità sessuale e di genere. Tuttavia, se si considera la società nel suo complesso, abbiamo ancora la stessa mentalità nazionalista, sessista e patriarcale, anche perché in Bosnia Erzegovina non si è investito in termini di educazione, informazione e qualità dei media. Le scuole devono istruire sui diritti umani, non si può attraversare una guerra e lasciare l'istruzione così com'è. Inoltre, la mancanza di un sistema politico forte ed equo e di un sistema di controlli e contrappesi ha un impatto estremamente negativo sulle questioni legate alle minoranze. Le iniziative spesso si interrompono perché non c'è consenso politico sulla necessità della parità di generi e sessi, tutto viene sempre liquidato come qualcosa portato dall'esterno. Per esempio, una parlamentare donna, molto sostenuta dalle ONG femminili per farla arrivare nella sua posizione, durante la prima lettura della bozza della legge anti-discriminazione voleva escludere l'orientamento sessuale dalla lista di quegli elementi da proteggere dalla discriminazione.

È successo lo stesso in Italia, dove il ministro delle Pari Opportunità ha dichiarato, poco dopo essere stata nominata, che non c'era nessun bisogno di affrontare il tema della discriminazione delle minoranze sessuali perché lei non era a conoscenza di nessuna discriminazione...

Sì, il problema sta proprio nell'arbitrarietà del modo in cui vengono gestite queste politiche. Non ci si basa sui fatti, si tratta semplicemente di gusti personali, e di quanto potere ha la persona in questione. Non c'è nessun dialogo culturale e nessuna decisione razionale in materia di politiche sociali, si è semplicemente preda della paranoia. In conclusione direi che sì, la guerra, il nazionalismo e l'estremismo religioso sono stati devastanti per l'attivismo in quanto tale.

Pensi che l'internazionalizzazione, come ad esempio l'integrazione europea, possa avere un ruolo nell'aumentare la sensibilità delle élite politiche del paese?

Sì, l'integrazione europea, o anche solo la prospettiva di tale integrazione, rende le cose più facili, poiché offre alcuni dei criteri democratici di base a cui il governo si deve attenere. Le leggi anti-discriminazione sono sostenute anche a livello internazionale, e nel momento in cui ci saranno obblighi di legge, almeno il governo dovrà renderne conto.


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