Dopo un referendum controverso e divisivo quali le prospettive ungheresi e regionali in tema di rifugiati? Abbiamo intervistato Gábor Gyulai, del Comitato Helsinki ungherese
Nel referendum del 2 ottobre scorso si è dimostrato decisivo il mancato raggiungimento del quorum. Il Comitato Helsinki ungherese ha invitato, assieme ad una coalizione di 22 ONG, i cittadini a votare scheda bianca. Potete dirvi soddisfatti di questo risultato?
Il Comitato Helsinki ungherese ha chiesto agli ungheresi di abbracciare una forma attiva di partecipazione elettorale per esprimere il proprio disaccordo verso l’abuso di un’istituzione democratica così importante. Questa forma di resistenza attiva va al di là del mero boicottaggio passivo, che richiede uno sforzo minore - non andare a votare - ma che lascia più possibilità d’interpretazione: non si sa mai esattamente perché qualcuno diserti le urne.
Più di 220.000 persone hanno raccolto il nostro appello ad annullare la propria scheda di voto, e questo è un risultato importante soprattutto se si considera che questa forma di espressione politica non ha nessuna tradizione in Ungheria.
Inoltre, il 56% degli elettori non si è recato alle urne. Questo dato non è straordinario di per sé, dato che l’affluenza alle urne – soprattutto ai referendum – è in generale molto bassa in Ungheria. Ma il risultato costituisce comunque un fallimento per il governo - che ha speso più di 50 milioni di euro per il referendum e per la campagna di odio che lo ha preceduto - e una vittoria modesta ma importante per il fronte della solidarietà verso i rifugiati.
Per mesi la propaganda xenofoba è stata onnipresente e ha propugnato messaggi secondo i quali l’immigrazione sarebbe un fenomeno diabolico e i rifugiati terroristi che minacciano la cultura ungherese. Una campagna di odio senza precedenza in Europa, finanziata tramite il budget nazionale. Le uniche voci udibili contro questa propaganda massiccia sono state quelle di alcune ONG e di piccoli enti, come il partito sarcastico del Cane a Due Code, con risorse molto limitate. Siamo molto soddisfatti che malgrado questo lavaggio del cervello soffocante la grande maggioranza degli ungheresi abbia deciso di non prendere parte a questo teatrino costosissimo e dannoso, anche se molti condividono l’avversione del governo contro i rifugiati.
La campagna referendaria, basata su disinformazione e istigazione alla xenofobia, ha fatto sorgere non poche preoccupazioni in merito all'aumento della polarizzazione interna al paese. Qual’è la vostra posizione rispetto al ruolo dei media ungheresi?
L’opinione pubblica è già molto polarizzata, e c'è scarso dialogo tra chi sostiene il regime di Viktor Orbán e quelli che lo ripudiano.
Per quanto riguarda la xenofobia, in realtà non si può parlare di una grande polarizzazione, perché sfortunatamente quelli che rifiutano l’utilità dell’immigrazione e la solidarietà con i profughi sono la maggioranza assoluta. Secondo tutti i sondaggi rilevanti, la società ungherese è tra le più xenofobe del continente. I motivi sono complessi e numerosi. Traumi storici mai digeriti, l’assenza di un passato coloniale, il fatto che la grande maggioranza degli ungheresi non parli lingue straniere e non abbia i mezzi per passare le vacanze all’estero contribuiscono ad un atteggiamento di chiusura.
Ma il motivo più importante è la mancanza di esperienza personale. In Ungheria vivono pochissimi immigrati, soltanto l’1,5% della popolazione è di cittadinanza straniera, e si concentrano soprattutto a Budapest e in qualche altra città. La maggioranza di loro sono europei: romeni, slovacchi, serbi, ucraini, tedeschi, austriaci oppure italiani.
I rifugiati che vivono nel paese attualmente non sono più di 2 o 3 mila persone. Così, gli ungheresi hanno poche occasioni di entrare in contatto con un “migrante”, e ancora meno di parlarci. Istigare odio contro una minoranza è spesso più facile quando il gruppo in questione “non ha un volto reale”. È molto facile convincere il pubblico del carattere “diabolico” di un gruppo se questo non è visibile nella vita reale. Questo dà ai mezzi di informazione un potere molto forte: il pubblico non ha altre fonti d’informazione che i media, e la maggioranza di questi è direttamente o indirettamente controllata dal governo, disposta a trasmettere qualsiasi messaggio propagandistico.
Non sorprende, dunque, che nel 2016 la xenofobia sia aumentata considerevolmente in Ungheria. L’avversione silenziosa della maggioranza si è convertita in odio manifesto, mentre la solidarietà timida di una minoranza si è trasformata in avversione e dubbio.
Il referendum ha mostrato che a Budapest e alcuni centri urbani, come Szeged, sul confine con la Serbia, quelli che rifiutano la xenofobia e la politica inumana del governo ungherese sono ancora numerosi, ma comparando il loro numero con l'attitudine diffusa nell’opinione pubblica a livello nazionale, siamo pochissimi.
I media evidentemente hanno avuto un ruolo importantissimo. Se i messaggi sfacciatamente xenofobi e la disinformazione sono ripetuti tutto il tempo in televisione anche durante la trasmissione dei giochi olimpici, e ogni giorno c’è una “notizia” sul giornale e alla radio che dimostra il pericolo della migrazione e la bravura del governo che lotta contro le politiche “aggressive” di Bruxelles, certo che molti, non avendo mai visto un migrante “dal vivo”, cominciano a crederci.
Questa politica fa parte ovviamente della politica generale del governo di Viktor Orbán, che tenta di eliminare o indebolire i pesi e contrappesi indispensabili del sistema democratico. Se i media fossero sufficientemente indipendenti in Ungheria, se il potere politico non fosse così disequilibrato, se il settore civile e caritativo avesse l’indipendenza e il coraggio necessario per andare contro la politica inumana del governo, non sarebbe stato possibile realizzare una tale propaganda d'odio.
Molte organizzazioni umanitarie hanno denunciato negli scorsi mesi il trattamento dei richiedenti asilo al confine fra Serbia e Ungheria. Quali sono i rapporti tra i due paesi e come verrà condizionato dall’esito del referendum?
La politica ungherese di “deterrenza massima” ha un impatto evidente sui paesi balcanici, soprattutto sulla Serbia. Se l’Ungheria blocca il flusso migratorio al confine, poiché si tratta di un flusso di migrazioni forzate, questo non sparirà ma si dirigerà verso altre rotte - come avvenuto nell’autunno del 2015 - o sempre più profughi verranno bloccati in Serbia e Macedonia.
Il governo ungherese ha chiaramente dimostrato negli ultimi due anni che non soltanto manca di qualsiasi tipo di solidarietà con quelli che fuggono da guerra o da persecuzioni, ma non bada nemmeno alle conseguenze che le proprie politiche hanno sui paesi confinanti. Invece di cercare una soluzione umana, basata sulla cooperazione regionale, ha deciso di cercare di rovesciare questa responsabilità sulla Serbia e su altri paesi della regione, molto meno preparati ad affrontarla in termini di capacità e infrastrutture.
Ma la geografia è un fattore decisivo sul quale neanche il governo ungherese può influire: alte montagne, fiumi, e nel caso della Bosnia Erzegovina la presenza di mine, rendono altre rotte alternative molto più difficili e costose. La Serbia e il confine serbo-ungherese rimarranno quindi un punto importante di ingresso all’UE.
La politica ungherese di considerare la Serbia come “paese terzo sicuro” – malgrado la posizione contraria dell’UNHCR –, è una politica che sta alla base del rifiuto quasi-automatico di tutte le domande di asilo in Ungheria, e così la violazione del diritto europeo e del diritto internazionale di asilo.
Alla luce degli sviluppi sulla rotta balcanica negli ultimi due anni, in che modo il Comitato Helsinki ungherese ha adattato la propria strategia di intervento in supporto a rifugiati e richiedenti asilo? E quali sono i prossimi passi che intendete fare in quest'ambito?
Il Comitato Helsinki ungherese, come partner dell’UNHCR, è l’unica entità che offre assistenza legale gratuita ai richiedenti asilo in Ungheria dal 1998. In questi quasi due decenni abbiamo aiutato più di 15mila richiedenti asilo.
Negli ultimi due anni, naturalmente, abbiamo dovuto adattarci alle nuove sfide. Con la moltiplicazione del numero di profughi abbiamo dovuto estendere le nostre attività. Poiché la zona del confine serbo-ungherese è diventata importantissima, abbiamo deciso di concentrare risorse importanti in questa regione. Oltre ai “tradizionali” centri d’accoglienza e di detenzione, visitiamo regolarmente, unico ente della società civile a farlo, le due “zone di transito” al confine con la Serbia, i due punti dove i richiedenti asilo possono entrare nel paese in modo regolare, ma in numeri arbitrariamente limitati dal governo.
Riteniamo che, alla luce della giurisprudenza rilevante della Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), queste zone di transito costituiscano una forma di detenzione illegale poiché sono prive tanto di fondamento legale che di garanzie rispetto ad una rapida supervisione giudiziaria di quanto avviene al loro interno.
Le riforme antidemocratiche del governo Orbán hanno ridimensionato la possibilità del settore civile di influire sul processo legislativo. I nostri sforzi in ambito locale hanno quindi perso molta della loro influenza. Per questo non abbiamo altra possibilità che quella di dare visibilità internazionale alle violazioni dei diritti umani: lo facciamo cercando di informare in tempo reale la comunità internazionale e il pubblico ungherese di tutti gli sviluppi, spesso essendo quasi l’unico contrappeso del macchinario di comunicazione massiccio del governo su questo tema. Presentiamo dei casi alla CEDU e alla Corte di Giustizia dell’UE, e intratteniamo rapporti regolari con vari enti di monitoraggio della situazione dei diritti umani, come il Consiglio di Europa o le Nazioni Unite, e anche alla Commissione Europea che osserva la conformità delle prassi ungheresi con il diritto comunitario.
Siamo convinti che l’Ungheria stia violando il diritto dell’UE in molti aspetti concreti e continueremo a lavorare affinché l’Unione finalmente intervenga in modo efficace riuscendo a rettificare perlomeno i punti più problematici, per esempio mettendo fine ai numerosi respingimenti illegali alla frontiera serbo-ungherese.
Crediamo anche che occorra trovare una risposta regionale e lavoriamo già per rafforzare la cooperazione strategica con ONG in Serbia, Macedonia, ma anche Grecia e Turchia. Con le nostre esperienze potremo aiutarle a estendere le loro competenze e con una “catena d’allerta” più efficace saremo capaci di documentare e prevenire meglio le violazioni di diritti umani, come i casi di maltrattamento o di refoulement (ritorno forzato illegale, ndr).
*Gábor Gyulai è direttore del Programma di Asilo del Comitato Helsinki ungherese
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