Un gruppo di artisti italiani decide di trasferirsi a lavorare in est Europa, ponendo la base operativa a Sarajevo e costruendo relazioni 'dal basso'. Un'intervista a Giorgio Degasperi di Zeroteatro
Un mese fa avete festeggiato a Sarajevo il decennale della nascita di "Ey de net - Zeroteatro". Ci puoi delineare il percorso che vi ha portato a lavorare nei Balcani e perché?
"Zeroteatro" è la denominazione di un progetto che sta dentro un ambito più grande, cioè l'associazione "Ey De Net, in attesa dei Fanet" fondata a Bologna nel 1997 da un gruppo di artisti, provenienti da diverse regioni d'Italia (Sicilia, Abruzzo, Valle d'Aosta, Lombardia, ecc.) e che a Bologna hanno trovato l'occasione di incontro per un crogiolo di intenti teatrali comuni. "Zeroteatro" è dunque l'espressione di un percorso fatto da molti artisti, che in seguito si sono inoltrati a lavorare nell'Est Europa perché hanno trovato per sé congeniale la cultura lì incontrata.
Avvenne un po' per caso. Nel 1999 ci invitarono a partecipare al festival di Spalato "Grlimno se morem" e a distanza di qualche settimana un altro ente ci aveva invitato a Szeged, in Ungheria. Tra un festival e l'altro decidemmo di trascorrere 15 giorni nei territori della ex Jugoslavia, più precisamente in Bosnia Erzegovina. Fu un viaggio che rappresentò per noi l'accesso ad una dimensione fino ad allora sconosciuta. Ci spinse ad avviare un percorso di conoscenza, fatti i conti con la consapevolezza della nostra ignoranza nei confronti di quel paese, ignoranza che purtroppo è condivisa dall'italiano medio. Toccammo con mano che si trattava di un "pezzo di casa nostra" che ci era rimasto avulso: la famosa Cortina di Ferro aveva funzionato per lungo tempo, in entrambe le direzioni. A mio avviso, la propaganda occidentale è riuscita ad essere altrettanto ottundente di quella oltre Adriatico. E' riuscita ad impedire a noi cittadini di capire ciò che accadeva sul piano culturale, delle tradizioni, della storia di questo enorme territorio così prossimo a noi.
Nel '99, dunque, entrammo in contatto con varie associazioni, persone che lavoravano sul territorio. Avviammo i primi scambi culturali e organizzammo workshop presso diversi istituti, che ci aprirono poi la possibilità di far girare la nostra proposta teatrale: dagli orfanotrofi alle scuole speciali, poi anche ai festival, in Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia e Montenegro. E' così nato il progetto "Teatro di pace", per il quale in tre anni abbiamo presentato il nostro racconto rituale "Il monumento" in tutte le strutture nominate. Ogni anno, tra il 1999 e il 2003, parte della nostra organizzazione teatrale si è svolta nell'est Europa.
Dopodiché ci siamo resi conto che non valeva più la pena spostarsi verso est per tre mesi l'anno in maniera poco coordinata. Lasciando la base legale a Bologna, abbiamo dunque deciso di spostare la nostra base operativa a Sarajevo, presso il Kino Teatar "Prvi Maj" (ex Kino Bosna). Di stanza a Sarajevo, siamo oggi in 5: Caterina Palmucci, Anna Lisa Cantelmi, Luce Prola, Alessandro Lucci ed io. Si uniscono a noi, di volta in volta, altri componenti dell'associazione che non hanno scelto il tempo pieno ma che ci danno una mano quando aumenta la mole di lavoro.
Dici che nell'est Europa avete trovato un ambito culturale ottimale per esprimervi. Ci puoi spiegare perché?
Usando una definizione sintetica, direi che cerchiamo di produrre un teatro popolare contemporaneo. In altre parole, è un'espressione artistica che non prevede una divisione netta tra pubblico e artisti, e gli eventi si creano grazie allo scambio continuo tra attori e pubblico. La sensibilità culturale che abbiamo trovato ad est, non ancora omologata ai modelli della cultura occidentale, mantiene delle forme di relazione con l'arte che sono molto interessanti. Potrei fare molti esempi del rapporto che Zeroteatro ha con il pubblico: di quando cioè quest'ultimo entra direttamente nel mezzo di quello che sta accadendo e vi partecipa attivamente, molto di più di quanto abbiamo potuto riscontrare in Europa occidentale.
Anche per questo siete riusciti a lavorare con ottimi risultati negli istituti, negli orfanotrofi e strutture simili?
Abbiamo sempre avuto un'attenzione particolare per le comunità, ci piace molto lavorare in questo tipo di ambito. Abbiamo fatto teatro in comunità non proprio allegre e felici, come orfanotrofi, campi nomadi ma anche situazioni psichiatriche difficili. Tuttavia, noi non lo definiamo "teatro sociale" o "teatro del disagio", due definizioni che vanno oggi molto di moda. Lo consideriamo invece "teatro di comunità" ed è per questo che ci è capitato, in Croazia e Bosnia soprattutto, di lavorare in orfanotrofi o con enti che si occupano di bambini profondamente segnati dalla recente guerra.
Voglio però incrinare dei pregiudizi rispetto alla qualità del "servizio" di queste realtà. Abbiamo trovato nei vari orfanotrofi delle situazioni certo differenti ma di una umanità, di una eccellenza - anche strutturale - inaspettate, soprattutto in Croazia. Infatti, anche se la sofferenza era palpabile, questi orfanotrofi si sono dimostrati essere dei luoghi di fortissima intensità umana, dove inoltre esistono dei saperi, dei modelli pedagogici, dei modelli urbani che... magari li avessimo avuti in Italia!
Il trasferimento a Sarajevo ha comportato per voi dei cambiamenti, oltre a quelli logistici?
Sottolineo che non siamo andati "di là" perché finanziati da qualcuno o perché appartenenti a qualche organizzazione internazionale. Ci siamo arrivati in qualità di semplici cittadini, che fanno un certo mestiere e scoprono che esso ha un certo valore in quella parte del mondo. Dunque per costruire uno scambio alla pari, simmetrico. Personalmente ho pensato: "qui sto bene, ci voglio lavorare, perché c'è riscontro, un terreno fertile che non trovo più a casa mia".
Questo aspetto ha sortito un effetto molto forte nelle persone che abbiamo conosciuto in loco: quando capiscono che non appartieni alla schiera di coloro che arrivano per portar soldi, le cose cambiano. Quando scoprono che sei venuto per fare il tuo mestiere e non sei "protetto" da nessuno, i rapporti si trasformano completamente e nascono situazioni di scambio veramente forti. Ci si riconosce come appartenenti ad uno stesso genere, mi vien da dire, al genere umano.
Di questo aspetto avete discusso anche in occasione della festa da voi organizzata a Sarajevo ad inizio novembre...
La festa era volutamente privata e vi hanno partecipato persone da noi espressamente invitate, in tutto un'ottantina, per la maggior parte italiani, che vivono in Bosnia Erzegovina come persone che risiedono in Francia, Ungheria e altri paesi europei. Voleva essere, ed è stato, un momento di incontro divertente e piacevole. Vista l'occasione, abbiamo pensato utile organizzare, nell'ambito della festa, anche un momento di riflessione sul tema dell' "essere straniero in Europa". Cioè sul significato dell'essere italiani che vivono all'estero, in un momento storico in cui si vive una dualità importante: ti senti "a casa tua", e questo vale in tutti i paesi dell'est Europa compresa la Bosnia -nonostante non sia ancora parte dell'Unione Europea - e al contempo ti senti "straniero". Credo che questo doppio sentimento accompagnerà ogni europeo nei prossimi decenni.
Al dibattito hanno partecipato 30 persone di cui 7 italiani, tra loro anche l'ambasciatore italiano in Bosnia ma non nella sua veste ufficiale, che ormai sono bosniaci: perché da anni vivono lì, hanno messo su famiglia e i cui figli frequentano le scuole bosniache. Le domande principali che ci siamo posti sono: "Come sarà il nostro futuro? Quale lingua si parlerà? Quale peso avrà la nostra voce? Cosa dobbiamo fare per non cadere nella trappola puramente economica?". Quest'ultimo quesito ce lo siamo posti perché in questo paese l'Europa ha privilegiato il sostegno alla dimensione economica, rispetto a quella culturale e politica.
A tutti è risultato evidente che un cittadino dell'ovest arriva ad est con delle prerogative diverse: è portatore di privilegi, anche solo perché portatore di una moneta molto forte ma alla fine, ciò che conta veramente, è il dato umano. Lo stesso ambasciatore Fallavolita ha sintetizzato con molta semplicità il concetto: se nel luogo in cui vai ti rapporti con curiosità e rispetto, poni le basi per qualsiasi tipo di relazione, stabile e duratura nel tempo.
E' un concetto importante, che l'Europa non deve mai dimenticare. Ogni gesto, oggi, assume una dimensione diversa da quanto avveniva in passato. Faccio un esempio concreto. Ci trovavamo a lavorare in Romania con uno spettacolo, pochi giorni prima dei fatti di Roma. Cosa sarebbe successo a noi, italiani, esposti al pubblico nelle piazze, nelle città medio piccole della Romania, se fossimo stati lì negli stessi giorni in cui si è alzata la tensione in Italia? Si deve sempre tener conto che sono tanti gli italiani e i rumeni, non soltanto in Romania e in Italia ma in tutta Europa, che si stanno muovendo e mischiando a tanti livelli, sempre di più.
Qual è il quadro delle relazioni che avete intessuto a Sarajevo?
Proprio perché non siamo arrivati in Bosnia con un progetto strutturato, il nostro approccio è sempre stato quello del lavoratore che va all'estero e cerca lavoro sul posto, attraverso una rete di conoscenze già maturate nel tempo. Per cui abbiamo cominciato a ragionare, dapprima, con quei pochi italiani che conoscevamo. Inizialmente sono nati dei workshop, coordinati da Gianluca Paciucci all'epoca addetto culturale all'Ambasciata.
Un altro appoggio è stata una palestra gestita da un ragazzo serbo sposato con una ragazza di Bari: ci ha dato la possibilità di creare fisicamente un nostro laboratorio. In seguito è iniziata la collaborazione con alcune scuole, poi abbiamo avuto modo di conoscere bene la realtà di un cinema che stava vivendo un momento di crisi. Si tratta del "Kino Teatar Prvi Maj" (Cinema Teatro Primo Maggio) che durante la guerra aveva subito molti danni ed era in stato di abbandono.
Con la forma del baratto, abbiamo offerto le nostre capacità per trasformare il luogo in una sorta di cinema - teatro, conquistandoci in cambio la possibilità di avere uno spazio di lavoro. E' nata un'incredibile sinergia, che nel tempo si è esplicitata anche formalmente scrivendo e realizzando progetti comuni. Ma non attraverso finanziamenti di istituzioni come l'Ambasciata italiana: solo grazie a singoli che hanno compreso di potersi aiutare reciprocamente con risorse personali. Per cui il nostro gruppo, che possedeva la strumentazione necessaria, ha creato un palcoscenico laddove c'era un magazzino, lavorandoci come scenografi e restauratori, mentre il teatro è riuscito a riattivare la vita culturale al suo interno.
Si è avviato un circolo virtuoso tale per cui posso dire che oggi il Kino Teatar è una delle realtà più vivaci di Sarajevo. Il fatto che adesso vi si tengano regolarmente performance, concerti, dibattiti, rassegne di cinema d'essai, lo ha reso un centro culturale utilizzato da tutti: dai gruppi più informali di giovani artisti alle ambasciate, le quali hanno capito che questo è un luogo trasversale nella realtà culturale della città. E' una testimonianza del fatto che anche senza progetti e fondi specifici, si possa fare molto anche dove sembra non ci siano risorse.
Quali sono i vostri progetti, nel futuro prossimo?
Questo inverno apriremo un atelier di teatro a Sarajevo della durata di quattro mesi, in cui ospiteremo degli artisti stranieri che sono convergenti al nostro lavoro ma aperto anche agli artisti di Sarajevo. Un artista francese e uno haitiano faranno un lavoro, rispettivamente, sulla voce e sulla danza. Inoltre stiamo curando, assieme alla moglie dell'ambasciatore che abbiamo scoperto essere una scenografa eccezionale e una pittrice molto brava, un progetto per portare a Sarajevo "Karadoz": teatro turco delle ombre che fino agli anni '50 aveva un discreto successo - non solo tra i bambini - e che prevedeva una specie di giornale popolare che si svolgeva nei caffè durante il Ramadam. Infine, rimaniamo ovviamente aperti a tutti gli spunti che verranno dalla città di Sarajevo stessa, oltre a continuare i nostri spettacoli in Italia, Ungheria e Bulgaria nell'arco di tutto il 2008.
Per informazioni su Zeroteatro:
e-mail:info@teatro.it
web: www.zeroteatro.it
Sulla storia del Kino Teatar si veda anche l' di Osservatorio sui Balcani del marzo 2006.
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