A seguito di attacchi al proprio sistema informatico l'Albania ha accusato l'Iran e ha interrotto ogni relazione diplomatica. Sullo sfondo il conflitto per l'ospitalità data al gruppo iraniano anti-ayatollah Mek
Tramite un videomessaggio , il 7 settembre scorso il primo ministro albanese Edi Rama ha annunciato la decisione del suo governo di interrompere immediatamente le relazioni diplomatiche tra Tirana e la Repubblica Islamica dell’Iran, accusando Teheran di aver operato il 15 luglio un massiccio attacco cibernetico sull’infrastruttura digitale del paese balcanico.
Il capo dell’esecutivo ha reso noto che gli obiettivi dell’incursione – condotta da 4 gruppi affiliati all’Iran e da lui definita fallita - erano la paralisi dei servizi pubblici digitali albanesi e il furto dei dati e delle comunicazioni governative. Il ministro per l’Europa e gli Affari Esteri Olta Xhaçka ha informato che la rottura delle relazioni è stata decisa dopo consultazioni con USA e UE. I diplomatici iraniani hanno lasciato il paese nelle ore successive.
L’Albania ha collaborato nell’indagine dell’attacco con la società di cybersicurezza americana Mandiant e con Microsoft, scoprendo che l’incursione ha coinvolto circa il 10% del network digitale governativo albanese, infiltrato dal maggio 2021. Incassato il sostegno e la solidarietà dagli alleati di Nato, Usa, Ue e Gran Bretagna, il 10 settembre il Paese delle Aquile ha subito un altro cyberattacco sul sistema informatico della polizia di frontiera ed ha attribuito anche quest'ultimo a Teheran. Si è entrati in un inedito fronte di guerra ibrida per un paese che si trova a subire un momento simile a quello vissuto dall’Estonia nel 2007 causa la sua appartenenza alla Nato e soprattutto lo stretto allineamento con la politica estera Usa e i suoi interessi.
Negando ufficialmente ogni responsabilità per le violazioni cibernetiche, Teheran ha bollato la rottura delle relazioni decisa da Tirana come prova di un “piano preordinato” dagli Usa, menzionando l’ospitalità data nel Paese delle Aquile al gruppo iraniano in esilio Mujahedeen El-Khalq (Mek ), composto da circa 3.000 membri e il motivo degli attriti – non nuovi - tra il paese balcanico e quello mediorientale.
Il Mek
Obiettivo dichiarato dell’organizzazione è il rovesciamento del regime teocratico iraniano. Nato in Iran nel 1965 in opposizione all’ultimo scià Mohammad Reza Pahlawi e operando dentro una cornice imperniata dall’ideologia marxista-islamista, l’anticapitalismo e l’antiamericanismo, il gruppo armato Mek ha partecipato alla sollevazione che porta al potere l’ayatollah Khomeini (1979). Richiamandosi alla separazione tra stato e clero, si è però trovato in un conflitto con la nuova repubblica teologica instaurata a Teheran, e per questo è stato oggetto di raid violenti accompagnati da persecuzione giudiziaria ed esecuzione dei suoi membri. La repressione ha costretto i suoi leader a rifugiarsi a Parigi e ad accettare l’ospitalità in Iraq del gruppo in cambio dell’appoggio armato a Baghdad nella sua lunga guerra (1980 – 1988) contro l’Iran. In questo periodo il Mek ha preso forma come organizzazione segreta obbligando i suoi membri al celibato, prodigandosi al contempo senza successo in operazioni militari anti-iraniane che continuano anche dopo l’armistizio tra Baghdad e Teheran. Nel 1991 l’organizzazione aiuta Saddam Hussein a schiacciare la rivolta curda nell’Iraq del Nord, esplosa dopo la Prima Guerra del Golfo. Identificato dal Dipartimento di Stato Usa come responsabile dell’uccisione di 6 americani in Iran negli anni ’70, il gruppo viene designato come organizzazione terrorista da Washington (così come da Ue, Canada, Giappone e Gran Bretagna), che lo disarma nel 2003 dopo la Seconda Guerra del Golfo e ne inserisce i membri nel novero delle “persone civili” protette dalla Convenzione di Ginevra prima di rimuoverlo da quella lista di artefici del terrore. L’opera di “restyling” interna al Mek include in questi anni la rinuncia ufficiale alla violenza. L’influenza crescente dell’Iran in Iraq obbliga gli Usa, dopo l’avvento al potere di un governo sciita filo-Teheran a Baghdad, a cercare una collocazione fuori dal Medio Oriente per il gruppo che era divenuto oggetto di attacchi armati . Si è chiesto inizialmente alla Romania di ospitare i membri del Mek – ufficialmente per motivi umanitari invocati dall’Onu - ma davanti al suo diniego si è offerta l’Albania, recente membro Nato, strettissima alleata americana sin dagli anni ‘90 e non nuova ad adempiere alle richieste Usa di ricettività fisica dopo che nel 2006 aveva rifugiato degli uighuri cinesi detenuti a Guantanamo e l’anno scorso fece lo stesso con civili afghani in fuga (molti dei quali collaboratori degli americani) dopo il ritorno al potere dei talebani a Kabul.
Gli Usa hanno ovviamente ringraziato , ma l’ospitalità (coordinata dall’Onu ) a un gruppo che si atteggia da futuro governo in esilio e promuove cyberpropaganda e raduni annuali che invocano il rovesciamento degli ayatollah, ha inserito automaticamente Tirana in una guerra diplomatica con l’Iran. Prima della recente rottura il conflitto si è svolto tramite espulsioni di diplomatici mediorientali, scoperta di attentati pianificati contro il Mek e scambi di accuse tra i capi di stato di entrambi i paesi.
Trump, l'Iran e l'Albania
Dopo il relativo disgelo tra Iran e Occidente nell’ultima fase della presidenza Obama e la ripresa delle attività economiche sul commercio di petrolio, Teheran è rientrata in conflitto con gli Stati Uniti durante il mandato di Trump, che ritirò unilateralmente Washington dai negoziati per limitare il programma nucleare iraniano, rimise in vigore delle sanzioni contro l’Iran e ordinò l’uccisione del generale Qasem Soleimani, leader delle Guardie della Rivoluzione.
In questo contesto l’amministrazione del tycoon vedeva nel gruppo rifugiato in Albania una leva per esercitare pressione sul regime degli ayatollah al fine di indebolirlo, inducendolo a rinunciare ai piani di egemonia regionale in Medio Oriente e alle attività antiisraeliane e antisaudite. In Albania il sostegno all'ospitalità al MEK vedeva concordi tutte le maggiori forze politiche, ben consapevoli che gli Usa sono l’unico alleato affidabile del paese sulla sicurezza in tutti i suoi aspetti: non fermandosi alle condanne verbali della cyberguerra all’Albania, nell’ultima settimana Washington ha sanzionato il ministero iraniano di Intelligenza e Sicurezza (Mois) e il suo titolare Esmail Khatib per “attività cibernetiche maligne” mentre il Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti Jake Sullivan ha chiamato in segno di solidarietà Edi Rama.
Le sanzioni sul Mois e Khatib rimarranno simboliche perché né il ministero e né il suo titolare possiedono negli Usa patrimoni passibili di congelamenti. Significative, invece, le loro conseguenze sul piano di ripresa di un dialogo, attualmente in stallo, tra Occidente e Iran per limitare il programma nucleare iraniano. Se confermata la cyberguerra contro un paese Nato mette in dubbio la volontà di Teheran per un accordo, che sulla carta rimane l’opzione migliore per tutte e due le controparti: per l’Occidente europeo che, in deficit energetico dopo il calo dei rifornimenti russi causati dalla guerra ucraina, ha bisogno della normalizzazione dei rapporti economici con il paese asiatico per poter comprare del gas aggiuntivo (l’Iran possiede circa il 17% delle riserve mondiali di questa risorsa); per la repubblica islamica che necessita di ulteriori proventi per apportare migliorie tecnologiche alla diffusione sul mercato interno di questa forma di energia.
Hai pensato a un abbonamento a OBC Transeuropa? Sosterrai il nostro lavoro e riceverai articoli in anteprima e più contenuti. Abbonati a OBCT!