Un lavoro che in Italia è stato a lungo visto come l’ultima frontiera del precariato, a sessanta chilometri di mare è percepito positivamente da migliaia di giovani albanesi. L'Albania e i call center, tra opportunità e contraddizioni

10/04/2014 -  Nicola Pedrazzi Tirana

In Italia la diffusione dei call center risale agli anni 2000, ma è solamente nel 2008, grazie a un riuscitissimo film di Paolo Virzì, che questa realtà lavorativa entra nel nostro immaginario collettivo. "Tutta la vita davanti", amara e grottesca commedia tratta dal libro "Il mondo deve sapere" di Michela Murgia, racconta la storia di Marta, ventiquattrenne d'animo buono laureata cum laude in filosofia: una delle tante voci senza volto cui tutti abbiamo chiuso il telefono in faccia, almeno una volta. Quello che il film non racconta, è che Marta, molto spesso, è albanese.

I call center, un business contemporaneo

I call center si dividono in due macrogruppi: i centri inbound ricevono le telefonate, fornendo il più delle volte un servizio di assistenza clienti; i centri outbound invece le effettuano, attuando campagne pubblicitarie o promozionali (è il cosiddetto telemarketing). Per aprire un call center non è necessario un grande investimento iniziale: basta un locale dotato di computer (magari di seconda mano) e allacciamento internet.

In sostanza, il costo principale è il lavoro. Come ben spiegato in "Operatore 451"- un simpatico blog che raccoglie i pensieri e le riflessioni dei giovani che hanno conosciuto da vicino quel mondo lavorativo - l'habitat ideale per questo tipo d'impresa è stato per lungo tempo il Mezzogiorno italiano. Grazie ai benefici della legge 407 del 1990, nata anche per combattere la disoccupazione nel meridione, se un’impresa assume in Calabria, Puglia, Sicilia o Campania, per tre anni sostiene un costo del lavoro inferiore a quello dei concorrenti del centro-nord - a questi sgravi fiscali vanno poi aggiunti i Fondi strutturali europei a supporto dell’occupazione nelle regioni del sud.

Foto di Nicola Pedrazzi

Allo scadere dei tre anni, il costo del lavoro è però destinato a crescere: l'azienda dovrà necessariamente aumentare la tariffa al committente, il quale, molto probabilmente, preferirà rivolgersi altrove. Dopotutto, quando il costo principale è il lavoro, la competitività si costruisce sui salari: inizialmente precarizzando, poi esternalizzando e delocalizzando. Dove? Vicino a casa.

Perché in Albania

I call center attivi sul mercato italiano iniziano a diffondersi in Albania a partire dal 2005. Un fenomeno dalle dimensioni notevoli, ma che non sorprende, da nessun punto di vista. Tanto per cominciare, in Albania la formazione linguistica non rappresenta un problema: cresciuta a Rai e Mediaset per tutti gli anni Novanta, buona parte dei ragazzi albanesi che oggi ha tra i venti e i trent'anni parla fluentemente l'italiano, a prescindere dai propri studi.

Ancora più importante, nel Paese delle Aquile il costo del lavoro è tre volte inferiore a quello italiano, inclusi i costi delle infrastrutture e dell'affitto locali. Secondo Monitor, una rivista economica albanese, l'attivazione di una singola postazione di operatore (comprensiva di scrivania, server e allacciamento internet) costa circa 600 euro. Questo significa che per aprire un call center di medie dimensioni in Albania basta un investimento iniziale di 60.000 euro. Una volta avviato, le spese salariali, comprensive di stipendio e contributi allo stato albanese, rappresentano fino al 70% dei costi totali. La prima ragione per attraversare l'Adriatico è dunque la manodopera: in Albania la paga media di un operatore sta tra i 280 e i 350 euro al mese, rispetto ai 900-1000 euro italiani. È facile capire come colossi come Vodafone, Wind, Sky Italia abbiano deciso di esternalizzare, appaltando il loro servizio clienti a call center su suolo albanese, mentre altre affermate aziende italiane abbiano addirittura scelto di aprire una propria sede a Tirana.

Attualmente, il numero dei call center operanti nel paese - non solo nella capitale, ma anche a Durazzo, Valona e Scutari - si aggira attorno al centinaio, tuttavia, sempre secondo Monitor, sono tre o quattro compagnie colosso a possedere la metà del mercato: Intercom Data Service (IDS), che nel 2013 contava 3000 impiegati, Teleperformance (1200 impiegati) e Albacall (più di 1000 dipendenti). Se la multinazionale francese Teleperformance opera in 63 lingue ed ha aperto a Tirana solamente una delle sue quaranta sedi sparse in tutto il mondo (Italia inclusa), IDS lavora quasi esclusivamente per aziende italiane e la sua storia è decisamente italo-albanese: il suo giovane proprietario, Agron Shehaj, è uno dei migranti degli anni Novanta. Dopo aver ultimato gli studi in Italia, da otto anni è tornato in Albania per mettersi a capo di un’armata di giovani che vedono nel loro capo il riscatto di un'intera generazione. La sua storia, emblematica della transizione albanese - fatta di andate ma anche di ritorni - è non a caso posta a conclusione del film "Anija - La Nave", eccellente documentario del regista albanese Roland Sejko.

Anche Albacall ha forti legami con l'Italia: è sotto la proprietà di Abramo holding, colosso calabrese di Sergio Abramo, sindaco di Catanzaro ed ex presidente di Assocontact, una delle più importanti associazioni di categoria che riunisce i proprietari di call center.

A differenza di IDS, Albacall opera su diversi mercati nazionali: come si evince dalla sua pagina FB, in Albania cerca operatori in grado di parlare non solo l'italiano, l'inglese, lo spagnolo, il francese, il turco o il greco, ma persino l'arabo, il giapponese, il cinese, il russo, il polacco... Il mercato inglese, greco e negli ultimi anni anche turco e tedesco, sono in effetti diventati i nuovi obiettivi di molti call center albanesi sempre meno Italy-oriented, ma per questi nuovi segmenti di mercato il servizio è ancora in via di sviluppo.

È difficile trovare dati attendibili sugli albanesi attualmente impiegati nei call center. Monitor indica una cifra tra le 10.000 e le 20.000 persone in tutta l'Albania, di età media compresa tra i 20 e i 22 anni, ma non vi è dubbio sul fatto che molti di loro sono studenti: la paga copre le spese universitarie e la flessibilità dei turni consente di frequentare. Anche se non ancora laureato, per un albanese bilingue non è difficile diventare operatore: Duapune.com e Njoftime.com, i due portali di lavoro più cliccati del paese, riportano quotidianamente annunci di call center, mentre per le strade di Tirana, a volte all'esterno degli stessi uffici, sono affissi costantemente cartelli promozionali che invitano i passanti a entrare e a lasciare il proprio CV. Apparentemente, in Albania i call center non smettono mai di assumere.

Un lavoro, due lavoratori

Un lavoro che in Italia è stato a lungo percepito - e forse ancora lo è - come l’ultima frontiera del precariato, a sessanta chilometri di mare è origine di soddisfazione per migliaia di giovani albanesi. In verità, parallelamente alla crisi, la delocalizzazione di questo tipo di servizi ha fatto cambiare idea ad altrettanti lavoratori italiani: persone riemerse dagli abissi della disoccupazione o del lavoro

nero proprio grazie ad un impiego nei call center, lavoratori non più giovanissimi, che farebbero certamente fatica a ricollocarsi. Ai tempi della Riforma Fornero il governo Monti si occupò della materia, cercando di arginare la delocalizzazione a favore dei posti di lavoro italiani; tuttavia, come impietosamente descritto da Salvatore Cannavò sul Fatto Quotidiano, l'unica misura veramente concorrenziale sarebbe quella di importare il costo del lavoro albanese.

Intervistato da Repubblica sui malumori dei sindacati italiani e sui possibili provvedimenti del governo, Agron Shehaj rispose non a caso con un sorriso: "Preoccupato? Poco. Sono i nostri clienti ad assicurarci che continueranno a investire qui. È nel loro interesse. E poi non capisco: quando gli albanesi sbarcavano a ondate gli italiani avrebbero pagato per rispedirli indietro, ma qualcosa dovete pure lasciarci fare, no?".

Un'affermazione, quest'ultima, che suonerebbe odiosa e strumentale, se non fosse che a pronunciarla è una persona che arrivò in Puglia sulle navi della disperazione. In fin dei conti, Agron è un imprenditore, e l'onestà intellettuale non gli manca: "Mi sono ispirato all’esperienza dell’India che lavora per l’Inghilterra".

Allo stesso modo, nessun sindacato potrebbe mai permettersi di sindacare la soddisfazione dell'operatrice Jetmira Ramolli: "Lavoro nei call center da quando avevo 17 anni e studiavo al ginnasio, ora ne ho 24 e studio Economia all'università di Tirana. Lavoro sei ore al giorno e guadagno 350 euro al mese: un ottimo stipendio, sì. Prendo più di un cameriere o una commessa, e l'orario flessibile mi permette di studiare".

Un lavoro, una contraddizione

Di lavoro, non vi è dubbio, c'è bisogno. Specie in un paese come l'Albania, dove tutto cresce, disoccupazione inclusa, e dove il welfare famigliare - ciò che mantiene buona parte dei giovani italiani - è pressoché inesistente. Se "il lavoro nobilita l'uomo", è altrettanto vero che il meritato successo di Agron e la comprensibile allegria di Jetmira poggiano su una contraddizione. L'antinomia, squisitamente contemporanea, è delle più classiche, e riguarda il rapporto tra economia e politica.

Un'Albania europea, legislativamente eurointegrata, economicamente più forte, culturalmente più aperta smetterebbe immediatamente di essere la patria d'elezione dei call center. Un fenomeno simile è osservabile in Romania, storica terra di delocalizzazione italiana che nel 2007 ha varcato i confini dell'Unione. Tuttavia, è un dato di fatto, sia il governo albanese che gli imprenditori italiani preferiscono ancora oggi investire sulla contraddizione: a Rama, è politicamente logico, interessa assorbire la disoccupazione interna; agli imprenditori italiani, è economicamente legittimo, interessa massimizzare i profitti.

I giovani albanesi, dopotutto, hanno "tutta la vita davanti". Nell'Albania di domani, probabilmente senza call center, qualcuno si accorgerà anche di loro. Di quel fattore socio-economico che, curiosa coincidenza, dà il titolo ad un altro film di Paolo Virzì: "Il capitale umano".


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