La lunga crisi politica albanese non è certo il risultato del sistema elettorale vigente. Ma per uscirne una riforma sarebbe quanto mai opportuna. Partiti, elezioni e futuro politico dell'Albania in un'intervista al politologo Afrim Kraniqi
Afrim Krasniqi, classe 1972, è professore di politologia presso l'Università di Tirana. Il suo campo di specializzazione sono principalmente i partiti e i sistemi elettorali nell'Albania contemporanea. Ha pubblicato diversi libri tra cui "La fine della Siberia albanese", "La società civile in Albania", "Partiti politici in Albania", "Elezioni in Albania 1991-2008". E' molto attivo nei media di Tirana, dove contribuisce regolarmente con punti di vista critici e professionali sulle vicende politiche attuali nel Paese balcanico.
Come definirebbe i partiti politici in Albania? Quanto sono rappresentativi degli interessi dei cittadini?
I partiti politici in Albania riflettono le stesse caratteristiche di tutti i Paesi in transizione: esistono, e sono dei fattori importanti della politica, ma hanno grossi problemi di funzionamento interno e di rappresentatività politica.
Nel caso albanese i partiti non presentano grosse differenze sociali o ideologiche, si tratta più che altro di strutture con a capo dei forti leader, seguiti da militanti e sostenitori mossi dalle simpatie tradizionali per un determinato partito, a causa di legami personali, provenienza geografica, oppure a causa di interessi concreti nelle strutture locali del potere.
Ad esempio, nelle ultime elezioni amministrative, circa il 5% dei candidati poi eletti aveva cambiato partito prima delle elezioni, andando dalla sinistra alla destra e viceversa, giustificando tali manovre non a causa del cambiamento delle convinzioni, ma per puro calcolo politico, per ottenere il sostegno di una o dell’altra parte.
D’altronde anche i due leader del Partito Democratico (PD) e del Partito Socialista (PS) hanno iniziato le loro carriere politiche da posizioni completamente opposte rispetto a quelle attuali. Berisha è stato infatti membro attivo del Partito Comunista (PPSH) mentre Edi Rama negli anni ’90 era membro attivo del PD.
Questo tipo di contrasto di identificazione politica influisce anche nella cultura politica, e nella capacità dei partiti di adempiere alle loro funzioni di base. Nel 1992 il Partito Democratico da solo ha ottenuto 1.2 milioni di voti, 17 anni più tardi invece nel 2009, il PD e il PS hanno ottenuto quasi lo stesso numero di voti. Nelle ultime elezioni amministrative, due mesi fa, entrambi i partiti hanno ottenuto circa 750.000 voti, cifra che corrisponde ad un quarto degli aventi diritto. Questo significa che vi è un’enorme perdita di consenso dei partiti maggiori, mentre paradossalmente aumenta il loro peso politico e il loro potere istituzionale nella vita pubblica e sociale del Paese.
Come commenta le ultime elezioni amministrative seguendo questo ragionamento?
Sono emersi dati positivi, per certi aspetti critici rispetto al passato, però per altri versi hanno fallito. Nel rafforzare la fiducia pubblica del processo elettorale, nel garantire la trasparenza finanziaria e in particolar modo sull'aspetto del conteggio e il riconoscimento dei risultati. Il rapporto OSCE/ODIHR sarà sicuramente negativo sotto questi aspetti.
Come spiega il fatto che a distanza di 20 anni dal crollo del comunismo in Albania, le elezioni rimangono un vero e proprio tallone d’Achille, mentre per gli altri Paesi vicini questo non costituisce più un problema?
Penso sia una conseguenza della mancata tradizione pluralistica. Per circa 46 anni votare contro alle elezioni equivaleva ad essere arrestati e sottoposti a processo penale.
Vent’anni dopo abbiamo elezioni che risentono in qualche modo di questo passato non libero, del mancato rispetto del voto contrario e della relazione tra gli interessi dei partiti e quelli dello stato.
Le nostre campagne elettorali non sono una competizione tra i partiti bensì tra chi detiene il potere e l’opposizione, a prescindere da chi siano questi soggetti. Il sistema amministrativo elettorale è completamente corrotto, dominato da militanti di entrambe le parti, e basato sul principio che chi ottiene la vittoria in una determinata circoscrizione ottiene anche la carica più alta nell’amministrazione, nella gestione dei finanziamenti pubblici.
Quindi non abbiamo una selezione in base ai programmi, bensì una concorrenza tra due campi economici e politici rivali. Gli stessi partiti al loro interno non sono democratici, non vi è una vera e propria competizione, di conseguenza è naturale che un partito non democratico al proprio interno non lo sia nemmeno all'esterno.
Un altro problema è il rapporto tra chi perde e chi vince. La sconfitta alle elezioni da noi si traduce in una perdita dello status sociale, delle risorse finanziarie, dell’immunità personale, famigliare, collettiva del proprio entourage. All'opposto chi vince ottiene tutto, e vede la vittoria come la concessione del diritto di dominare senza fastidi. Quando ci si presenta alle elezioni la gara assomiglia a una battaglia per la vita o la morte, il dibattito non ha limiti morali, manca il senso della misura nel comportamento e nelle promesse, manca il senso della responsabilità nei confronti dei cittadini. L’unico obiettivo è quello di vincere a tutti i costi. E le conseguenze sono quelle che abbiamo visto nel 2009, e nel 2011, comportando un costo negativo per il Paese.
E puntualmente dopo le elezioni segue una crisi lunga e logorante. Dopo le elezioni del 2009, la crisi post-elettorale è durata ben due anni. L’ultima dopo le elezioni amministrative dello scorso 8 maggio è durata 2 mesi...
All’origine delle crisi permanenti sta il grande deficit nella mentalità degli attori politici e nel loro comportamento. Effettivamente in Albania il processo di policy making rispecchia la volontà personale di 2-3 leader politici. Abbiamo istituzioni deboli e leader politici forti, mentre il Paese avrebbe bisogno del contrario. Abbiamo inoltre gli stessi leader politici da circa due decenni ed hanno del tutto personalizzato la vita politica del Paese. Probabilmente rimarrà tutto così anche nel prossimo futuro.
Sta diventando sempre più attuale il dibattito sulla riforma elettorale. Ritiene che potrebbe comportare un miglioramento della situazione?
Nel corso degli ultimi vent’anni sono stati adottati ben 17 interventi di riforma del codice elettorale, abbiamo adottato tutti i sistemi elettorali immaginabili: il maggioritario, quello misto, quello proporzionale, ma le elezioni non riescono comunque a produrre stabilità e democrazia funzionale.
E’ chiaro che la situazione attuale non è dipesa dai sistemi elettorali vigenti.
Ciononostante a mio avviso sarebbe importante intervenire sul sistema elettorale attuale in chiave proporzionale, permettendo la rappresentanza a tutti i partiti e rendendo possibile anche la partecipazione degli emigrati nel processo elettorale. Si dovrebbero adottare liste aperte a sistema proporzionale anche nell’elezione diretta dei capi del partito e di chi dovrebbe in seguito ottenere le più alte cariche al potere.
Poi vi sono altri aspetti da riformare quali il sistema del finanziamento della campagna elettorale. Per ora domina un mercato elettorale informale. Inoltre si dovrebbe adottare una riforma amministrativa e territoriale, riducendo il numero delle circoscrizioni locali per farlo coincidere con quelli della rappresentanza parlamentare.
Come valuta il comportamento dell’opposizione nel corso degli ultimi due anni?
L’opposizione dopo le elezioni del 2009 rispecchia un modello politico tradizionale in Albania: critiche, rifiuto, non riconoscimento dei risultati delle elezioni, dilemma della rappresentazione parlamentare, boicottaggio e scioperi.
E’ un tipo di comportamento comprensibile in occasioni di grandi crisi, come avvenuto nel 1991, nel 1996 e nel 1997, ma nel 2009 un atteggiamento del genere è esagerato e controproducente.
L’opposizione in Albania è numericamente molto importante, se avesse voluto utilizzare questo potenziale parlamentare in maniera attiva e qualitativa, il risultato sarebbe stato maggiore sia per l'opposizione stessa sia per il Paese. La deviazione da questo ruolo è stata stimolata anche dalla maggioranza al potere. Entrambe le parti hanno scelto un tipo di comportamento tradizionale in Albania, arrecando un grave danno al Paese, alla sua democrazia e all’interesse pubblico.
Dopo le elezioni amministrative dello scorso maggio cambierà qualcosa? Edi Rama non è più sindaco di Tirana, il PS sembra indeciso e diviso sulle strategie da seguire, Berisha sempre più forte e radicato nelle istituzioni…
L’opposizione è costretta a cambiare strategia. Il Partito Socialista ha vinto le ultime elezioni, ma non la coalizione a cui faceva capo, che le ha perse. Questo dovrebbe porre fine alla prassi del boicottaggio permanente e dovrebbe mettere l’opposizione nelle condizioni di affrontare la propria responsabilità nei confronti dell’elettorato e dei partner internazionali.
L’opposizione cercherà comunque di arrivare a elezioni politiche anticipate e nel 2012 cercherà di impedire che il prossimo Presidente della Repubblica provenga dalle fila della destra. Per cui penso che sarà costretta a combinare l’attività parlamentare con manifestazioni di piazza e proteste.
La prossima sfida sarà la capacità di imporre una riforma costituzionale e la riforma del sistema elettorale: per far tornare tutto alla situazione prima del 2008. Si tratta di modifiche cruciali per la qualità della democrazia in Albania.
Altrimenti rischiamo in modo permanente che uno dei due partiti, il PD oggi, e il PS domani, ottenga il controllo di tutte le istituzioni politiche e costituzionali del Paese, grazie a un esiguo numero di voti in più rispetto all’avversario.
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