L’artista albanese Adrian Paci ha aperto la sua casa natale al pubblico, trasformandola in un luogo di esposizione e incontro tra galleristi, critici e artisti. Lo abbiamo incontrato per parlare di questa sua iniziativa, di alcuni dei suoi ultimi lavori e della realtà artistica nel paese
La Galleria d’Arte Contemporanea “La Veronica” ha aperto nel 2007, a Modica, in provincia di Ragusa. Ora il suo fondatore, Corrado Gugliotta, è non a caso uno degli ospiti del nuovo spazio artistico di Scutari: Art House, la casa d’infanzia di Adrian Paci, ristrutturata dall’artista e dalla moglie Melisa.
Gugliotta è riuscito a fare del ragusano, luogo certamente non avvezzo alle avanguardie artistiche, un luogo di ricerca, valorizzazione e circolazione dell’arte contemporanea. Fa piacere sentirselo raccontare dalla ancor più isolata Scutari, che aggrappandosi al sempre più lontano ricordo dei secoli veneziani, si trova oggi a resistere – non senza difficoltà e, appunto, dalla “periferia delle periferie” – all’egemonia culturale della capitale albanese.
Persino oggi, in casa sua, Adrian Paci veste i panni dell’ospite d’eccezione. Carico di emozioni e nonostante sia parco nelle presentazioni – il palco è dell’ospite di turno – non è difficile coglierne l’immensa soddisfazione per aver finalmente portato “a casa” parte di quelle persone che lo hanno accompagnato in tutti questi anni, nel suo percorso di artista e nella sua sfolgorante carriera internazionale. Una felicità doppia, non solo personale, perché quest’insolita rimpatriata artistica ha portato a Scutari opere di cui i suoi concittadini non avrebbero mai avuto modo di godere.
“Memorandum”, la mostra che in settembre ha inaugurato Art House ha infatti ospitato i lavori dell’inglese Willie Doherty e degli italiani Pierpaolo Campanini e Giovanni De Lazzari. In due mesi incontri, oltre al gallerista Corrado Gugliotta, sono giunti a Scutari la critica Angela Vettese e Marta Gili, la direttrice del Jeu de Paume di Parigi.
Arte in casa di artisti
Qualche giorno dopo la prima visita sono tornato a Scutari. La casa in cui Adrian Paci ha vissuto fino al 1997, anno della dipartita per l’Italia, si trova a pochi passi dalla pedonale che attraversa il centro, tra un bell’edificio ottocentesco in elegante stile ottomano e un recentissimo palazzo della transizione. Arrivo in anticipo e ho ancora un po’ di tempo per curiosare in giro: per ammirare da vicino l’eleganza e la raffinatezza delle opere esposte, per scendere sul prato del giardino adiacente e constatare come antico e moderno possano vivere felicemente insieme, tra muretti in pietra, pareti in vetro e interni in legno.
All’improvviso Adrian mi raggiunge, e con il suo contagioso sorriso mi accompagna nella zona rimasta privata dell’edificio. Mi racconta di quando suo padre e suo zio costruirono la casa negli anni Sessanta, delle difficoltà economiche, dei materiali utilizzati, dei danni subiti in occasione del terremoto del ’79. L’idea di tornare e mettere mano al “paterno ostello” ha certamente radici lontane: è maturata negli anni vissuti all’estero, quando la voglia di casa trascende i confini del razionale. Chiacchierando, arriviamo all’attualità: “Il colpo di grazia è stato il palazzo qui davanti…”. Già, la storia la conosciamo. La smania di costruire, lo “sviluppo” sconsiderato che ha deturpato Scutari e tante altre città dell’Albania, innescando una complessa dinamica a ribasso tra spazi architettonici e rapporti umani. L’architettura, segno del passato, immagine del presente e proposta per il futuro, ha in un’indubbia valenza sociale se rapportata alle esigenze di chi la abita: “Perché alla fine tutto è politica, anche quello che determina la relazione tra le persone”. Dunque questa casa è anche una risposta a questa politica, un gesto di resistenza al gioco del guadagno sfrontato, alla logica dell’affare cui sembra così difficile sottrarsi.
Adrian è tornato per fondare una casa dell’arte perché considera questa casa non semplicemente sua, ma un dono di tutte quelle persone che l’hanno costruita e vissuta; è tornato per avere uno spazio dove raccogliere e conservare il lascito artistico del padre venuto a mancare molto giovane; è tornato perché a mancargli non era solo una villetta dove passare le vacanze, ma piuttosto uno spazio comune,“aperto ad un contributo culturale proveniente da quel mondo dell'arte che io frequento da un po’ di anni, considerando che anche se l'Albania non è più isolata come una volta la comunicazione con il resto del mondo rimane faticosa”. Una casa che è ciò che appare: materializzazione del suo pensiero, della vita in transito, di uno spazio di mezzo che perde un’identità per acquisirne un’altra, che va a completare la prima senza sostituirsi ad essa. Uno spazio che si trasforma ma senza rompere la continuità, mantiene un rapporto con la tradizione nello stesso momento in cui instaura un dialogo con una generazione diversa. Una realtà privata ed intima, ma allo stesso tempo aperta a tutti, dai giovani artisti ai gran nomi internazionali. Una casa, e cioè un luogo fisso, fatto per rimanere, che al tempo stesso si propone di mettere in circolo esperienze e persone, un luogo “che rende possibile il transito delle idee, e che fornendomi una ragione per venire più spesso in Albania mi consente di mantenermi in transito”, conclude Adrian.
Il transito verso Scutari può certamente sembrare insolito, ma il bisogno di tornare e di fare qualcosa di autentico, qualcosa che avesse senso, per l’artista quanto per la comunità, è evidente, assieme alla consapevolezza che quando si intraprende qualcosa non si possono fare calcoli e non ci possono essere successi garantiti. “L’idea della proliferazione rimane sempre un orizzonte di speranza in questo mestiere. Anche chi fa un disegno nel suo studio cova la speranza che da questo disegno possa nascere qualcosa che vada oltre il godimento personale di chi lo fa, ma non può nascere senza questo godimento personale, al di fuori questo momento. Si tratta di un prolungamento di qualcosa che ha senso per te, che appartiene alla tua visione, e che speri che quello che fai abbia una sorta di sviluppo che vada oltre te. Questa è la sfida, che non si può portare avanti senza quella dose di idealismo che metti nel progetto; la giusta dose nel giusto contesto. La proliferazione di qualcosa dipende dalla sua capacità di contaminare un territorio e dalla capacità del territorio di essere contaminato da questa idea. Devo dire che per come sono andate le cose fino ad ora, questo rapporto ha funzionato molto bene. Io non mi aspettavo meglio.”
Un artista che ha esposto al Moma, alla Tate Modern, all’Instambul Modern, al Jeu de Paume, al Maxxi, da Scutari cosa si aspettava?
Un artista cerca di essere continuo nel suo lavoro, senza pensare a cosa questo aggiunga alla sua carriera. Non ho la mappa degli obiettivi da realizzare, ma sto al mondo pensando a cosa fare adesso, ad individuare uno spazio dei desideri. Il desiderio è quella cosa che ti permette di raggiungere o di tentare di raggiungere quello che ti manca. Perciò devi capire cosa manca. E a me mancava questo, non alla mia carriera artistica. Allora l’ho fatto senza pensare di fare una performance artistica, ma neanche pensando che sia un’impresa fatta nel tempo libero dal mio lavoro. È parte del mio lavoro come artista, ma con altre dinamiche, altre modalità. Ed è molto appagante perché crea un movimento di pensiero e di esperienze che nascono proprio qui.”
In Home to go porti un tetto rivoltato sulle spalle. Quelle tegole che rappresentano la casa, la tradizione, il passato, le origini a volte sono un peso, un impedimento, altre volte perdono consistenza e si fanno ali, per quanto inadatte a volare. Col senno di poi, come lo senti quel peso del tetto sulle tue spalle?
Rimane sempre un peso, la fatica. E rimane sempre una zona ambigua, carica di complessità. Ogni cosa arriva sempre con il suo contrario, con le sue problematicità, le sue tensioni. Ma è proprio grazie a questi aspetti che la cosa diventa vitale. Altrimenti siamo davanti ad un concetto chiuso. A me non interessa la casa come idea, come concetto ben definito, chiaro, che non lascia spazio per essere messo in discussione. Infatti anche questa casa è uno spazio aperto. Non è solo casa mia. Ora siamo qui insieme, ma intanto entrano ed escono altre persone. Mi piace quando un'idea, un concetto, un’immagine, offre altre possibilità al suo interno. Il caso del tetto rovesciato era proprio così. Era, prima di tutto, un tetto staccato mentre la casa mancava. Un tetto girato, capovolto, tetto che diventa delle ali ma resta sempre un peso, qualcosa che ti porta via ma anche qualcosa che porti con te.
In Sue proprie mani, lavoro realizzato “a quattro mani” con il regista Roland Sejko, alcuni attori leggono le lettere (appena ritrovate nell’Archivio di Stato albanese) dei cittadini italiani giunti in Albania durante l’occupazione fascista e poi, a seguito della Seconda guerra mondiale, intrappolati nel paese di Hoxha in attesa di essere rimpatriati. Qual è l’aspetto di queste storie che ti ha maggiormente colpito: lo sradicamento, la mancanza di comunicazione, il gioco politico?
A me interessano le zone sospese, perché in quella sospensione vedo delle potenzialità. Una realtà aperta, che non si è conclusa, ma che rimane impotenza. Quelle lettere rimaste impotenza mi sembravano una materia molto interessante. Poi in questa potenzialità entrano in gioco tanti fattori, come ad esempio la storia individuale all’interno della Storia collettiva, di una storia più grande, con la S maiuscola. Questa vita intima all’interno di una storia politica, questione tra due stati, tra due ideologie, tra due modi di intendere il rapporto con il cittadino.
Ci interessava poi questo materiale perché vi abbiamo individuato una configurazione culturale molto interessante dell’Italia di quel periodo. Il modo in cui si esprimono, le storie che raccontando. Ci sono delle testimonianze umane. E mi interessa sempre parlare di questioni di ampio respiro, partendo da situazioni minuscole, quelle che vedi solo al microscopio. C’è anche una dimensione personale in quelle lettere che ci interessava molto. Inoltre era un materiale interessante per aprire un dialogo tra la dimensione documentaristica e la possibilità di aggiungere della finzione. Per me è molto importante questo passaggio: come la finzione, che è l’opera d’arte, entra in relazione con la verità della vita. Come la vita, nella sua realtà a volte cruda, o crudele, riesca a nutrire la possibilità della fantasia, dell’invenzione, che sono appunto gli elementi della finzione.
A proposito di realtà, arte e finzione. Tu sei arrivato in Italia nel ’92 e ci sei ritornato nel ’97, un periodo particolarmente difficile, in cui l’Albania era il paese dei clandestini. Oggi il nostro paese si presenta attraverso i media italiani (quelli che ci hanno cresciuto!) come paese delle opportunità. Non ti sembra che ci sia anche qui un gioco di realtà, percezione e rappresentazione; una sorta di narrazione, di verità e di finzione che è anche, appunto, potenzialmente, una forma d’arte?
Sì, certo, e credo che non si possa sfuggire alla narrazione. Ma è necessario problematizzare le narrazioni, soprattutto quando sono stereotipate, quando sono finte. La finzione dell’arte, se non porta un contributo alla vita, diventa quel fake, quel falso che può essere molto dannoso, soprattutto se unito ad interessi politici e mediatici. Può essere dannoso anche quando contribuisce a non problematizzare il pensiero ma a nutrire un’aspettativa attraverso i cliché, la superficialità. Sicuramente una narrativa in questo senso c’è, ma l’Albania negli anni Novanta era ovviamente più di un paese di migranti, così come l’Albania di oggi è ben più complessa di un paese dalle mille opportunità”.
L’Albania è sempre più presente sul panorama artistico internazionale: nel 2016 parteciperà per il secondo anno consecutivo alla biennale dell’architettura mentre già quest’anno era alla biennale arte di Venezia. Il desiderio di affacciarsi è evidente. Ti sembra che ci sia lo stesso fermento anche nel panorama locale? C’è effettivamente una maggiore attenzione per l’arte?
Per tanti anni siamo stati oppressi. A questo oggi c’è una reazione che nasce in modo oserei dire violento; c’è come una spasmodica voglia di recuperare il tempo perduto. Parte di questo recupero riguarda senza dubbio il dialogo con la scena internazionale dell’arte, e ovviamente ci sono alcuni canali privilegiati, come possono essere la Biennale di Venezia o altre mostre internazionali. Credo che l’Albania abbia già perso troppo tempo. Vedo che solo recentemente la partecipazione agli eventi di Venezia sta diventando un impegno serio del ministero della Cultura, in altre occasioni è capitato che se ne ricordassero in ritardo e così finivano in cantucci meno visibili. Credo che sia importante fare di queste iniziative una consuetudine, certamente senza lo sforzo di doversi presentare a tutti i costi, con chissà quali aspettative. Tuttavia, questo non esaurisce affatto i bisogni della scena artistica interna perché in queste piattaforme il paese porta proprio quello che dovrebbe essere il frutto di una scena locale. In questo c’è ancora molto da fare. Come dappertutto, del resto. L’importante è non fermarsi, non accontentarsi, non compiacersi.
A volte si ha l’impressione che gli artisti di Tirana guardino fuori o si aspettino una mano tesa da parte dei colleghi di fama internazionale?
Non so, è difficile generalizzare. È chiaro che manca una comunità organizzata, capace di parlare all’unisono. Ci sono individui che fanno il proprio lavoro, con più o meno entusiasmo, con prospettive più o meno confuse. Bisogna puntare di più a livello di politiche culturali: con istituzioni più strutturate, con budget migliori e programmi ben definiti, con uno sforzo serio per creare uno scambio continuo e strutturato tra la scena locale e quella internazionale.
Ovviamente il lavoro dell’artista è frutto di una volontà e di una visione, di un’energia e desiderio individuale. Ma nasce in relazione al contesto. Le istituzioni e le politiche culturali non possono avere il compito di assecondare ogni tentativo di un artista, questo è compito dell’artista, devono però creare delle strutture che siano d’aiuto, strutture in continua trasformazione, perché le situazioni non sono mai fisse, si trasformano.
A proposto di politiche e istituzioni, come saprai a Tirana c’è un nuovo centro d’arte, con opere d’eccezione, dentro la Presidenza del Consiglio. Come vedi l’arte contemporanea dentro al Palazzo del governo?
È uno spazio pericoloso, ma è anche un’opportunità: pericoloso perché l’arte lì dentro, più che in altri spazi, può diventare decorazione, legata e manipolata dal potere; ma è un’opportunità perché non è detto che questo avvenga sempre.
La casa di Adrian Paci, a ben vedere, è un plastico appello alle istituzioni – affinché guardino con attenzione alla scena artistica albanese per comprenderne la direzione, intercettarne le necessità – e agli artisti albanesi, affinché si impossessino degli spazi a disposizione, perché no, partendo proprio dal Palazzo del governo, per allontanare il potere dell’arte dal potere di Stato, per fare riprendere il dibattito. Senza presunzioni di sorta, l’Art House di Adrian Paci si pone senza dubbio con la forza di un’idea nuova: infischiarsene di raccogliere folle, senza infischiarsene delle persone. L’idea di aggregare amici, curiosi e addetti ai lavori; una casa, chiaramente aperta a tutti, ma soprattutto a chi non è alla ricerca di uno spettacolo, della mondanità; uno spazio dove l’arte viene messa in discussione e le idee in circolazione.
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