E' una crisi sociale, ancor prima che politica quella vissuta dall'Albania. Ma con una differenza sostanziale rispetto agli anni '90. E' cresciuta una nuova generazione, di giovani donne e uomini, né ex né post, cresciuti nello scambio quotidiano di idee e di passioni con altri giovani di ogni parte del mondo. E di loro ci si deve fidare. Un commento
Ci sono voluti tre morti, in apparenza incomprensibili ma certo ingiustificabili, e la loro folle esecuzione in diretta che ha fatto il giro del mondo, perché la comunità internazionale tornasse ad occuparsi con qualche preoccupazione dell'Albania e dello stato di salute della sua giovane democrazia.
Un fiammata di violenza e di rabbia non prevista neppure dagli osservatori più accreditati e dalle Agenzie internazionali che hanno i loro uffici in pianta stabile, con i loro esperti remuneratissimi, nel cuore della capitale Tirana.
Ma come è stato possibile? Allargare le braccia ed evocare a propria giustificazione un volk-geist balcanico, antropologicamente vocato al caos, è con tutta evidenza inaccettabile. Va dato atto invece ad Osservatorio Balcani e Caucaso d'avere segnalato, puntualmente e da tempo - e purtroppo del tutto inascoltato - i segni di una crisi sociale piuttosto che economica (anzi nascosta dietro ad un'economia aggressiva e dai parametri di segno positivo).
Crisi che, in un Paese come l'Albania, potrebbe essere facilmente monitorata anche solo osservando i numeri della diaspora giovanile verso altri Paesi, fenomeno che sembra non aver mai fine. O guardando al disincanto di chi, dopo i disordini 1997, aveva deciso di restare nel proprio Paese, investendo in un nuovo inizio: contando, questa volta, su una comunità internazionale meno distratta e più decisa nel porre precise condizionalità alle Istituzioni statali e al ceto politico albanese.
Si sollecitava, ieri come del resto anche oggi, un deciso contrasto all'illegalità dentro e fuori l'apparato dello Stato, la separazione dei poteri, interventi strutturali a favore del sistema formativo in accordo con le Agenzie europee e così via elencando.
Ma di quelle condizionalità (e della loro applicazione) su questioni fondamentali per una democrazia moderna, non vi è traccia nell'azione dei partner nazionali ed internazionali dell'Albania, se non nella forma di blande quanto rituali sollecitazioni, rivolte senza convinzione ai governi di turno di destra o di sinistra che fossero.
Un esempio tra gli altri, e neppure il più clamoroso, del silenzio della comunità internazionale di fronte ad alcune macroscopiche patologie del sistema Albania riguarda l'istituzione universitaria statale, attualmente al collasso. I tredici atenei pubblici esistenti sono lasciati senza finanziamenti. Accanto a loro l'ipertrofica moltiplicazione di università private, ben trentasette (37!): ciascuna delle quali, naturalmente, con uno sponsor politico-economico insediato negli apparati ministeriali e nelle stanze governative. Università private tutte in più che fiduciosa attesa di certificazione (senza il coinvolgimento della istituzioni europee competenti!) per entrare a pieno titolo nell'Europa accademica.
Quale sia la vera “ragione sociale” di questo ricco e variegato bouquet di università private non dovrebbe sfuggire ad un osservatore anche solo minimamente attento.
Dicevamo più sopra di un contrasto paradossale tra una crisi sociale, che è anche crisi morale, e i numeri dell'economia in apparenza positivi. Ma vediamo da vicino di che si tratta: il reddito pro-capite è raddoppiato nel giro di cinque anni, il PIL cresce ogni anno di un 2 per cento pieno (fino a pochi anni fa era addirittura del 5/6 per cento), le rimesse degli immigrati, anche se in forte calo, appaiono ancora rilevanti: cito per comodità e autorevolezza della fonte, da un articolo di Gigi Riva sul penultimo ultimo numero dell'Espresso.
Certo non sono i numeri che nei primi anni novanta del secolo scorso avevano fatto gridare al miracolo albanese, alla “Svizzera dei Balcani”. Ma oggi come allora si tratta di indicatori che nascondono una ben diversa verità sulla sostanza dell'economica del Paese delle aquile.
Se ieri origine di quel “miracolo” era il sistema illegale delle finanziarie piramidali di cui tutti peraltro sapevano, dentro e fuori l'Albania (Ue, Nato, Stati partner ecc.), oggi è una sorta di welfare state fai-da-te, traducibile in questi termini: caro cittadino, non chiedere nulla allo Stato e lo Stato non porrà lacci o laccioli di alcun genere al tuo legittimo(?) bisogno di benessere economico.
Il fatto è che dietro a questo laissez-faire in salsa albanese non vi è nessun richiamo ad Adam Smith e tanto meno a un John Maynard Keynes, quanto piuttosto l'idea di una società senza etica e di uno Stato senza diritto. Dietro quei numeri, quel PIL curiosamente ancora alto, si intravede dunque una crisi ben più profonda, anche economica, del sistema Albania.
Vi è però una differenza sostanziale rispetto al '97 che può e deve alimentare le ragioni della speranza. Nel frattempo - e qui la mia interpretazione differisce da quella “antropologica” di molti osservatori stranieri - è cresciuta una nuova generazione, di giovani donne e uomini, esigenti, né ex , né post, acculturati, cresciuti nello scambio quotidiano di idee e di passioni, con altri giovani di ogni parte del mondo, frequentatori di una grande piazza dove parole come legalità, onestà, solidarietà sono oramai moneta corrente.
Di questi giovani ci si deve fidare. E farebbe bene l'Ue - unica istituzione internazionale a nostro avviso in grado di imporre ad un ceto politico recalcitrante l'obbligo di una transizione verso la democrazia - ad intercettare la passione e l'intelligenza di questi giovani e a spingerli (proteggendoli) a essere non solo figli del loro tempo e della loro storia ma, responsabilmente, anche padri.
* Ennio Grassi Sociologo della letteratura, è stato parlamentare alla Camera dei Deputati, Consigliere Diplomatico a Tirana e Consigliere scientifico presso il Ministero della Pubblica Istruzione e il Ministero degli Affari Esteri Italiani.
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