La quarta edizione di “Terra Madre Balcani” tenuta a inizio giugno a Tirana, ha messo al centro del dibattito problemi e speranze dei piccoli produttori agricoli della penisola
Piazza «Madre Teresa» conclude il lungo boulevard che negli anni dell’occupazione italiana doveva plasmare la nuova identità fascista di Tirana, conferendo al centro città la forma del fascio littorio. Dopo cinquant’anni di parate comuniste e un sostanziale stato d’abbandono vissuto nel corso della transizione, questa piazza ha ritrovato la sua centralità cittadina a seguito della visita di Papa Francesco (era il settembre del 2014 e l’immenso spiazzo venne restaurato e tirato a lucido) e della felice scelta d’isolarla dal convulso traffico della capitale con un’efficace pedonalizzazione a fasce orarie.
È qui, in questa vecchia, nuova piazza di Tirana che il Mercato della Terra ha portato i suoi colori: 50 stand di piccoli produttori e agricoltori provenienti da tutti i Balcani, ma anche degustazioni, concerti, conferenze, workshop ed una grande cucina all’aperto dove alcuni dei più rinomati cuochi del paese hanno cucinato e dato spettacolo durante i tre giorni della manifestazione. Quest’anno Terra Madre è scesa a Tirana anche per questo, per il fondamentale contributo che gli chef albanesi possono portare alla rete Slow Food. Nel corso della presentazione dell’edizione tiranese il presidente Carlo Petrini ha ricordato come l’Alleanza Slow Food dei Cuochi di Albania, nata un anno fa, sia oggi in continua espansione, innescando una filiera che unisce i ristoranti ai piccoli produttori, con effetti positivi in termini economici, turistici ma anche di esportazione.
Dare voce ai contadini
Se nei Balcani tali movimenti stentano ancora a decollare – come racconta Michele Rumiz, coordinatore della rete Slow Food nei Balcani – i cuochi albanesi hanno dato grande respiro alla gastronomia del paese, sia per qualità che nel rapporto con i produttori. L’obiettivo di Terra Madre 2016 è appunto quello di “dare voce ai contadini”, portando al centro dell’evento i piccoli produttori, per esplorare le opportunità fornite dall’accesso ai mercati e dalle politiche di sostegno; ma anche per spronare i produttori locali a uscire dalla zona grigia dell’irregolarità e compiere quel fondamentale passaggio dalla produzione in casa alla produzione artigianale: in altri termini, la standardizzazione della qualità.
Perché nell’ottica di Slow Food – e della prossima integrazione alimentare in Europa – la preservazione della biodiversità passa anche da questo adeguamento formale ma, d’altro canto le resistenze non sono poche: le tasse, il timore di dover alzare il prezzo perdendo in competitività, ma anche un percorso di regolarizzazione che può risultare incomprensibile alle culture rurali dell’Albania e dei Balcani tutti. Il rischio, come sempre, è che gli investimenti non siano sufficienti a raggiungere gli standard richiesti.
L’annoso problema delle regole igieniche, già al centro della precedente edizione, è più che mai attuale. Come ci spiega la professoressa Sonya Srbinovska, in Macedonia uno dei caseifici che si è messo a norma ha dovuto rifare da capo l’edificio dove si produceva formaggio da più di cento anni. Purtroppo, nell’asettico splendore degli interni in acciaio inox, il formaggio non ha più lo stesso sapore.
Problemi e opportunità
L’esperienza di Pierpaolo Ambrosi, coordinatore dell’evento, responsabile Vis Albania e, come testimonia il suo buon albanese, da oltre vent’anni impegnato in progetti di cooperazione nel paese, è utile a farci fare un passo indietro. Ambrosi punta l’attenzione su altri problemi, tra cui la frammentazione dei terreni agricoli, sulla quale l’Albania è maglia nera: l’86% dei terreni è inferiore ai due ettari. Sono dimensioni che escludono gli agricoltori dai finanziamenti comunitari e soprattutto, non garantiscono loro un tenore di vita dignitoso. C’è poi il nodo tutto albanese dei titoli di proprietà, di cui spesso gli agricoltori non sono in possesso, così come la più comune resistenza dei paesi post-socialisti a confluire in organizzazioni che ricordano le cooperative di una volta. “Finché le dimensioni medie del terreni rimarranno nella media di oggi si andrà verso un progressivo abbandono delle campagne. L’80% degli agricoltori raggiungerà l’età pensionabile in dieci anni e in queste condizioni non c’è e non è pensabile alcun ricambio generazionale”.
Di trasmissione e d’innovazione aveva parlato anche Carlo Petrini, invocando una maggiore attenzione all’agricoltura da parte della politica, affinché la ricchezza antica e radicata delle tradizioni possa essere trasferita dalle generazioni più anziane a quelle più giovani, “perché la tradizione altro non è che innovazione continua nel tempo e nelle epoche”.
“Contadini per scelta”
Nell’era dell’industrializzazione e della tecnologia, emergono sempre più frequentemente in Europa storie di giovani che scelgono di tornare alla terra per coltivare ed allevare , ma parlare di “contadini per scelta” nei Balcani è ancora prematuro. Nei paesi dove l’agricoltura non si è fatta industria, a vincere è ancora la tendenza a nascondere le origini contadine: è su questo pudore culturale, che a Tirana colpisce anzitutto le migliaia di famiglie inurbate, che si innestano sia i già citati problemi di consapevolezza del potenziale agricolo che le innumerevoli incertezze e diffidenze burocratico-legali. Come sottolinea Dessislava Dimitrova, ricercatrice e coordinatrice di Slow Food in Bulgaria, la carenza di servizi nelle aree rurali demotiva alla permanenza nelle campagne. Chi ha una famiglia, dei figli, deve pensare innanzitutto alla loro istruzione, ai servizi medici.
“L’atmosfera e il quadro legale non favoriscono le piccole entità”, spiega la Dimitrova. In molti paesi le politiche nazionali stentano ad arrivare, mentre le direttive europee, notoriamente sussidiarie, si arenano nell’inettitudine dell’amministrazione pubblica. Anche per questo, bisogna vincere quella diffidenza e resistenza tutta balcanica sia alla collaborazione che al rischio di un’impresa privata, dove per lungo tempo qualsiasi iniziativa è stata proibita e punita. “La sfida consiste nel comprendere che collaborazione e amicizia non devono andare necessariamente di pari passo, nel prendersi la responsabilità del proprio futuro” conclude.
La collaborazione, a livello di piccoli produttori quanto di paesi, è apparsa a più riprese nei temi degli appuntamenti di questa edizione, un invito a pensare al patrimonio culturale della regione nel suo insieme, non per appiattirne le differenze, ma per prendere atto del fatto che spesso le problematiche sono comuni, e la soluzione può essere condivisa. E perché non pensare allora, azzarda la proff.ssa Srbinovska, anche ad una “indicazione geografica transfrontaliera”, nel segno della cooperazione, certo, ma anche nella speranza di ovviare a prevedibili diatribe sul “vero” luogo di origine dei singoli prodotti. Perché il patrimonio di questo nostro cibo e territorio, va da sé, dovrebbe aiutare a costituire l’uguaglianza fra tutti, non a celebrare il primato di pochi.
Guerra contro il tempo
Queste le teorie, i pensieri. Ma la celebrazione del palato, in questi giorni tiranesi, si è vista in piazza, tra l’intenso viavai di visitatori, i sapori unici provenienti da tutta l’area balcanica, il tripudio di canti improvvisati dei delegati. Al Kitchen Theater, lo spiazzo dove per giorni gli chef si sono dati il cambio e hanno cucinato per centinaia di persone, parliamo con un “Don Chisciotte” della cucina e dell’Alleanza Slow Food albanese. Non vuole che faccia il suo nome, “qui siamo tutti uguali, io sono solo uno che dai sogni ha tratto delle lezioni di vita”. L’anonimo filosofo insiste sulla necessità di usare prodotti locali, ma non fa mistero dei problemi: dall’inflazione della denominazione “prodotto biologico albanese” all’inquinamento di molte zone a causa degli scarichi industriali. Ma la difficoltà principale, sottolinea, è una sola, ed è quella di fare una scelta: tra produrre per guadagnare e produrre pensando a qualità e salute. E questa, mi spiega, è una scelta individuale: parte dal sogno, da dentro, dal basso.
Oggi Terra Madre è “il basso” e il campo di battaglia è proprio a queste latitudini. Perché sei dei 12 milioni di piccoli agricoltori presenti in Europa sono oggi nei Balcani. Ma secondo Michele Rumiz, dal 2000 al 2012, all’interno dell’Unione europea l’agricoltura ha perso 4.8 milioni di posti di lavoro a tempo pieno, di cui il 70% nei nuovi stati membri. “È una guerra e la stiamo perdendo”, avverte. “Se non riusciamo a salvare le aziende agricole di piccole dimensioni qui, nei Balcani, dove riusciremo mai a farlo?”.
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