Dentro l'opera e la riflessione della scrittrice albanese Musine Kokolari non c'è solo l'Europa, ma l'europeismo. Un’intervista all’antropologo Mauro Geraci
Il 4 dicembre scorso l’Università La Sapienza ha dedicato una giornata di studio a Musine Kokalari, scrittrice albanese che il regime di Enver Hoxha incarcerò (1946), esiliò (1964) e lasciò morire di tumore al seno (1983). Nel 1941 proprio presso La Sapienza Kokalari aveva conseguito la laurea; ma terminati gli studi scelse di rientrare in patria, battendosi negli anni della guerra, della resistenza e del conflitto civile per la costruzione di un’Albania democratica. Nel nome della libertà, accettò la prigione, il confino e il silenzio poetico. A margine del Convegno abbiamo incontrato Mauro Geraci, antropologo e massimo studioso italiano della scrittrice, di cui insieme a Simonetta Ceglie ha curato l’edizione italiana de La mia vita universitaria. Memorie di una scrittrice albanese nella Roma fascista.
Musine Kokalari ha scritto più volte che soltanto la letteratura era al centro dei suoi interessi. Eppure alla riscoperta della sua figura contribuisce il fascino dell’intellettuale capace di dire no al regime di Enver Hoxha. In Kokalari lei vede più letteratura o più politica?
Da tempo ho costruito una tabella: ho messo su una colonna tutti gli uomini politici albanesi dall’Ottocento a oggi e su un’altra colonna tutti gli scrittori e poeti. E ho visto che in Albania c’è un’enorme corrispondenza tra uomini di lettere e politici. Buona parte dei politici albanesi sono autorità nel nome della loro autorialità: gli si richiede anzitutto di scrivere, di dimostrare di saper ripensare il passato. Una regola che valeva durante il regime e che a maggior ragione vale oggi. Dopotutto come fai, se non sai produrre letteratura – nel caso di Edi Rama potremo dire in senso più ampio “arte” – a spiegare agli albanesi che hanno passato cinquant’anni sotto la dittatura enveriana che la democrazia è buona e giusta? Ecco, questo connubio tra politica e letteratura si ritrova anche in Musine Kokalari. Ma in una logica completamente diversa, in chiave ecumenica.
Cosa intende?
Musine è innanzitutto un’acutissima osservatrice della realtà albanese: quando arriva a Roma ha già pubblicato tre o quattro libri di racconti etnografici in cui descrive e si interroga su scene di vita popolare; le interessano gli aspetti critici, i bambini che si avventano famelici sulla tazza di yogurt, le case di Argirocastro, la questione della subordinazione femminile (testi che in italiano non abbiamo, e per i quali auspico che ci sia un’operazione di traduzione).
Dopodiché a Roma, nella “capitale dell’Impero” si laurea con una tesi sul grande poeta albanese Naim Frashëri e sul suo naturalismo poetico. Prese 110 e lode. In commissione c’erano Natalino Sapegno, Ettore Paratore, Giuseppe Cardinali… La compagine intellettuale della facoltà di lettere di allora era straordinaria, certo fascista, ma non poteva non esserlo, la formazione che l’Italia forniva agli studenti del Regno al tempo era indirizzata… Kokalari arriva in Italia come una persona attenta all’Albania antica e alle sue trasformazioni. Nello scritto “Cosa mi ha raccontato la mia nonna”, usa il dialogo familiare come forma per riflettere sulle trasformazioni dei costumi.
Passando dall’Albania all’Italia del 1938 Musine passa da un mondo rurale a un mondo futurista: macchine, grandi costruzioni, riscaldamenti sempre accesi che la asfissiavano. La modernità la soffoca. È questa esperienza che nutre la sua riflessione romana. Per me Kokalari è una demologa che diventa antropologa, ma contemporaneamente questa antropologia ha un’applicazione di tipo politico, come in Migjeni e in Koliqi, che denunciavano la povertà, l’indigenza, la condizione femminile, lo sfruttamento. La coscienza politica Musine l’ha sempre avuta. Ecco perché quando torna in Albania si batte ecumenicamente per un’Albania democratica. Ma è “solo” lo sbocco naturale del suo percorso letterario.
Parliamo del regime, di cui Kokalari riconobbe subito i tratti totalitari, probabilmente proprio grazie alla sua cultura letteraria. Dal canto suo però anche Enver Hoxha ebbe la capacità di usare la letteratura come un’arma di governo….
Certo, Hoxha si impose come personaggio letterario. Durante un interrogatorio del processo cui fu sottoposta, a Musine chiesero cosa ne pensasse di Bilal Xhaferri. Perché attraverso la tua opinione letteraria capivano come la pensavi. Il regime enveriano spiava e controllava ideologicamente. È questo il “Palazzo dei Sogni” raccontato da Kadare. Sono convinto che il comunismo albanese sia stato un “comunismo onirico”. Tutti i regimi dell’Est Europa sono stati durissimi, ma mai sono arrivati a questo punto.
Il poeta dissidente Vizar Zhiti mi ha più volte raccontato che in carcere lo svegliavano la notte, gli chiedevano di leggere un brano di Kadare e dal commento capivano se il testo era in linea o meno con il realismo socialista. Alle scuole elementari lasciavano ai bambini due temi: uno di carattere nazionalista e l’altro libero. In base alla scelta e a quello che i bambini scrivevano impostavano un’analisi del testo per capire se stavano crescendo da buoni comunisti. Ancora una volta, un controllo che passa dalla scrittura e dalla letteratura. Dopotutto durante il regime in Albania il 20% degli stipendi era in libri, da tenere in casa per le letture collettive. Dall’altro lato del fiume invece si svilupparono le “Carcerologie”, la memoria e la letteratura di chi era prigioniero, che si sta riscoprendo oggi.
All’incrocio tra politica e letteratura giganteggia proprio la figura di Ismail Kadare, lo scrittore albanese per eccellenza.
Senza dubbio. Kadare è stato il prescelto cui il regime ha affidato il compito di mostrare al mondo che cos’è un intellettuale albanese. Kadare è uno straordinario narratore: ha svelato all’interno dei suoi romanzi quegli stessi meccanismi coercitivi che teneva in grande considerazione nella costruzione della sua prosa, come se potesse al contempo partecipare un sistema e rimanerne immune. Letti oggi i suoi romanzi sono denunce sotto metafora, ma se lo fossero stati veramente è difficile credere che un regime letterario come quello di Hoxha li avrebbe lasciati passare.
Dico questo non per alludere a giudizi morali sulla persona, che davvero non mi interessano, ma per ribadire che il regime albanese non era stupido e aveva al centro della propria azione persuasiva il controllo della letteratura. Grazie agli studi di Brunilda Dashi sappiamo ad esempio che il romanzo “Il grande inverno” è stato scritto e riscritto più volte, perché il regime albanese ha vissuto varie fasi interne, di apertura, di chiusura. Questo ci conferma quanto già detto: Kadare è un gigantesco scrittore albanese e al contempo è indissociabile dal periodo della dittatura, perché anche lui come altri ha dovuto adattare la sua letteratura al momento politico. Il fatto che la sua opera sia più longeva del regime per il quale venne prodotta si deve unicamente alla qualità della sua arte. Non si tratta certo di un caso unico: guardiamo alla storia dell’arte europea, Jacques-Louis David nacque nell’Ancien Régime, dipinse per la Rivoluzione e poi per Napoleone.
Durante il convegno la parola “femminismo” non è stata pronunciata, ma aleggiava in sala. Secondo lei si può dire che Musine sia stata una femminista?
Secondo me è una forzatura, specialmente se attribuiamo alla parola “femminismo” i valori della contestazione occidentale. Musine non riflette sul genere, non fa mai riferimento alla categoria “noi donne”, o a fattori di carattere sessista. Registra la condizione sociale della donna albanese, ma le sue categorie sono antropologiche. Certamente la sua riflessione sulla condizione femminile contempla l’emancipazione della donna.
La figura di Musine Kokalari è avvolta da un grande velo di rimpianto, per l’Albania che poteva essere e che non è stata. C’è un intero patrimonio di albanesi cresciuti tra le due guerre che il regime distrusse, impedendo loro di portare il proprio contributo alla ricostruzione. Penso non soltanto a Musine ma ad esempio Llazar Fundo, l’amico di Altiero Spinelli a Ventotene, insomma a quel variegato panorama dell’antifascismo europeo che c’era anche in Albania, ma con cui i comunisti (al tempo filojugoslavi, e dopo il 1948 stalinisti) non condivisero il potere.
Non c’è dubbio. Dentro Musine – che, ripeto, è antropologa, poetessa, politica, scrittrice – c’è più dell’Europa, c’è l’europeismo. Il suo “progetto” era tanto albanese quanto di una straordinaria modernità. Dal processo e dai documenti di recente messi a disposizione dall’”Istituto di Studi per i crimini del comunismo” sappiamo che nel dopoguerra Musine parlava con tutti: con i nazionalisti, con i monarchici, con quella parte di partigiani che erano contro la presa del potere con il sangue. Si sono accaniti su di lei proprio perché era una persona in grado di costruire dialogo. “Com’è nato il partito social democratico” è un saggio storico che Musine scrive in isolamento, lo comincia negli anni Settanta (in isolamento poteva scrivere, in carcere no). Anchora una volta, è un’opera molto albanese, a metà tra il saggio e il romanzo: Musine parte dalla storia dell’Albania e poi comincia a raccontare la sua esperienza all’interno di questo partito; si volge indietro, a una storia politica abortita, ma che oggi diviene testimonianza.
Testimonianza per un futuro ancora da costruire. Come vede da antropologo l’Albania democratica?
Mi sono avvicinato all’Albania nel 2001. Accompagnavo un mio caro amico giornalista del “Messaggero”, siamo rimasti un mese e mezzo, ricordo che tornai con una valigia piena di libri. Ho ancora a casa una foto che scattai per caso a Tirana: dentro alla piramide mausoleo di Enver Hoxha si commemoravano i dieci anni dalla morte di Maria Teresa di Calcutta; sopra, siccome si attendeva la visita di Bush, c’era scritto “Welcome President”. Massimo comunismo, massimo capitalismo, massimo cristianesimo. Un caotico museo della memoria, mai ricomposto.
Se sei antropologo ritieni non ovvie cose che gli altri nemmeno notano. Ad esempio, quando la fiera del Libro di Tirana si è spostata dalla Piramide a Palazzo dei Congressi, ho notato subito che dentro alla nuova sede era stata riprodotta una piramide di libri. A scopo pubblicitario, dirai tu, ma intanto l’inconscio quale soluzione aveva suggerito? Pensiamo alla nuova Piazza Skanderbeg, rifatta per l’ennesima volta: la pavimentazione non è piatta, ma disegna una piramide… Se sei antropologo queste cose le noti e le colleghi, è il nostro lavoro. Questi simbolismi prometeici contano, e ci suggeriscono che l’Albania odierna continua a presentarsi come letteratura. Forse l’Albania stessa è un romanzo. Un’illusione.
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