Due recenti studi mostrano come oltre il 40% della popolazione armena viva sotto la soglia di povertà, mentre poche famiglie di oligarchi detengono più della metà del PIL del paese
Svegliarsi in Armenia significa rivivere la caduta dell’URSS, un giorno dopo l’altro, sempre lo stesso, per gli ultimi ventitré anni. È come se il tempo, per una oscura maledizione, si fosse fermato a quei giorni, e noi fossimo tutti dei superstiti. Se mai la definizione di post ha avuto un senso, questo è il caso dell’Armenia, che porta ancora visibili sul suo corpo i drammi di quel trapasso, mai del tutto compiuto o esorcizzato.
Lo si percepisce negli ingressi dei vecchi condomini sovietici della capitale, bui e sporchi per l’incuria di anni, dove gli ascensori si bloccano di frequente, anche a causa dei troppi blackout. Lo si vede a Vanadzor, dove le enormi industrie d’epoca sovietica, cupe e spettrali, dominano incontrastate il paesaggio nel più completo abbandono. Lo si percepisce infine, dolorosamente, sui corpi di molti anziani, piegati e sofferenti, che pagano in molti casi l’impossibilità a ricevere cure mediche appropriate in anni in cui in Armenia mancava più o meno tutto, e il gas era disponibile nelle case solo poche ore al giorno.
Gli oligarchi
Un periodo, quello della fine del blocco sovietico e dell’indipendenza, che è corrisposto in Armenia con due eventi particolarmente tragici: il terremoto di Spitak del 1988, dove persero la vita circa 25.000 persone, e la lunga guerra per il Nagorno Karabakh (1988-1994). L’economia, un tempo industriale e florida, ne è uscita inesorabilmente segnata, anche a causa della chiusura dei confini con la Turchia e l’Azerbaijian, nonché della mancata soluzione del conflitto. Eppure, non è mancato chi su tali tragedie ha speculato, creando nel giro di pochi anni – e spesso in maniera tutt’altro che limpida – ingentissime fortune. Si tratta dei cosiddetti oligarchi.
Uno studio del 2007, che aveva destato parecchio scalpore, mostrava come 44 famiglie detenessero più della metà del PIL armeno, e solo 2, addirittura, il 12%. Ora, nonostante la crisi del 2008 abbia colpito duramente l’Armenia – tanto da farle guadagnare nel 2011 il secondo posto fra le peggiori economie al mondo, stando alla classifica stilata dalla rivista americana Forbes – gli oligarchi continuano a prosperare indisturbati, mentre le diseguaglianze all’interno della società armena tendono ad aumentare.
A dimostrarlo sono due studi pubblicati di recente, che hanno trovato ampia eco nella stampa armena. Il primo, i cui risultati sono stati resi pubblici in occasione della Giornata mondiale del rifiuto della miseria, il 17 ottobre, è opera del sociologo Aharon Adibekyan del centro di ricerca Sociometer. Secondo tale studio, il 42% della popolazione armena vive sotto la soglia di povertà, ovvero con meno di 2 dollari al giorno. Per il 10%, con una disponibilità di meno di 1 dollaro al giorno, si può parlare invece di povertà assoluta. La fascia abbiente della società armena si attesterebbe infine al 13%.
I dati paiono confermati dalla ricerca condotta dall’Istituto Nazionale di Statistica armeno in collaborazione con la Banca Mondiale. Secondo quanto esposto da Diana Martirosova il 18 novembre scorso, il livello di indigenza estrema nel 2013 è aumentato dello 0,7% rispetto al 2008, mentre il livello generale di povertà è cresciuto del 4,4%. Anche il coefficiente di Gini, indice usato per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, mostra un notevole aumento: si è passati infatti dallo 0,242 del 2008 al 0,271 del 2013. Lo studio ci mostra inoltre come la povertà sia più diffusa nei centri urbani rispetto alle aree rurali del paese.
Emigranti
Al di là dei numeri, le ricerche risultano di notevole interesse perché gettano luce su fenomeni sociali di vasta portata, come quello dell’emigrazione e delle rimesse. Da Yerevan al villaggio più sperduto, una delle scene più comuni nel paese sono le file di persone in coda per cambiare rubli, dollari o euro. In Armenia si possono cambiare i soldi ovunque, dal supermercato al centro commerciale e persino in molti negozi, nonché nelle migliaia di botteghe di piccoli cambisti che svolgono la propria attività quasi in ogni angolo del paese. Stando a quanto riportato da Adibekyan, il 17% delle famiglie armene vive esclusivamente grazie alle rimesse inviate dai propri parenti all’estero, e in primis dalla Russia.
I dati sono impressionanti, specie per un piccolo paese come l’Armenia. Secondo le cifre fornite dalla Banca centrale della Federazione Russa, nella prima metà di quest’anno 583 milioni di dollari sarebbero trasferiti dalla Russia verso l’Armenia. Il fenomeno dell’emigrazione, sempre secondo quanto affermato dal sociologo Adibekyan, riguarderebbe soprattutto la classe media, con l’effetto di polarizzare ulteriormente la società armena. A tali dati si collegano, purtroppo, una serie di fenomeni sociali assai diffusi, come l’abbandono della famiglia da parte di emigrati che, dopo essersi risposati all’estero, lasciano al proprio destino moglie e figli in Armenia.
Il ponte di Kiev
Un’altra questione, sintomo di una sofferenza sociale profonda, è quello dei suicidi, che si stima siano aumentati dal 2003 al 2013 di più del 100%, passando da 377 a 768 casi l’anno. Il ponte detto di Kiev, nella capitale armena, ha la triste fama d’essere il luogo scelto da molti armeni per porre fine al loro destino. Ancor più dolorosa, se possibile, è la questione degli aborti selettivi, messa in luce di recente dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione. Secondo quanto riportato, l’Armenia sarebbe il primo paese al mondo per tale pratica, dettata indubbiamente da una disperazione estrema.
Il regista armeno Artavazd Peleshyan, in un documentario del 1972 intitolato Le stagioni, ci ha dato una raffigurazione potente del destino del suo popolo: la lunga sequenza del guado di un pastore in un fiume in piena, che combatte contro i flutti per portare a riva un agnello. Un eroismo semplice, dimesso, lontano dagli occhi di molti, ma non per questo meno commovente. Nella piccola repubblica caucasica, giorno dopo giorno, migliaia di armeni lottano nell’indifferenza di tutti – e persino di alcuni loro connazionali, forse troppo agiati per accorgersene – per la propria sopravvivenza.
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