Nel giorno dedicato alla memoria del genocidio del 1915, l’Armenia si sveglia inebriata dalle celebrazioni seguite alle dimissioni del primo ministro Serzh Sargsyan. Un’ondata di proteste senza precedenti ha intaccato la scena politica di uno dei paesi più immobili dell’ex spazio sovietico
Il tono e le parole hanno sorpreso quasi più dell’annuncio. “Le proteste sono contro il mio incarico. Nikol [Pashinyan] aveva ragione, io avevo torno. Esaudisco le vostre richieste”.
Sei giorni dopo la sua nomina a primo ministro, l’ex presidente armeno Serzh Sargsyan, ha comunicato le sue dimissioni, cedendo alla pressione delle proteste che per undici giorni hanno monopolizzato la capitale Yerevan. E lo ha fatto con toni pacati ai quali gli armeni non erano abituati – solo il giorno prima, domenica 22, l’ex premier aveva chiuso dopo pochi minuti un incontro di mediazione con Pashinyan, il leader delle proteste, ordinandone l’arresto poco dopo. Le dimissioni sono quindi state uno squarcio di sole inaspettato, anche per gli stessi manifestanti. Decisiva per spostare l’ago della bilancia pare essere stata la decisione di unirsi alla folla da parte di un gran numero di rappresentanti dell’esercito, da sempre fortemente allineato al potere - che negli ultimi dieci anni è stato saldamente in mano a Sargsyan e al Partito repubblicano.
Ieri
A innescare le manifestazioni è stata la mossa dei repubblicani di nominare Sargsyan primo ministro una settimana dopo lo scadere del suo secondo, e ultimo, mandato da presidente del paese grazie al nuovo sistema parlamentare, adottato con un controverso referendum nel dicembre 2015.
“[È stata] una selezione, non un’elezione, che ha innescato la rabbia di molti armeni che hanno visto in questo gioco il pericolo di un ‘leader per la vita’”, spiega a OBCT Richard Giragosian, analista politico e direttore del Centro di studi regionale di Yerevan.
Sargsyan, originario del Nagorno Karabakh come gran parte dei leader che hanno guidato il paese dall’indipendenza ad oggi, non brilla per carisma, ma ha dominato incontrastato la scena politica dell’ultimo decennio, anche grazie alla mancanza di alternative coerenti e convincenti. Il voto dell’aprile 2017 ha cambiato il panorama, portando in parlamento nuove voci e svecchiando un’opposizione ormai logora, nonostante il Partito repubblicano abbia conservato la maggioranza.
Nikol Pashinyan - ex giornalista e fondatore del movimento apolitico Contratto civile (K'aghak'aciakan paymanagir in armeno) poi confluito nella coalizione Yelk oggi in parlamento – ha raccolto la voce di una generazione digitale, nata dopo la caduta dell’Unione sovietica e determinata a scardinare le dinamiche analogiche di una classe politica ormai obsoleta.
Questi giovani, adolescenti e ventenni hanno respinto la visione secondo la quale il paese aveva bisogno di mantenere la leadership attuale per negoziare la fine del conflitto che strangola Armenia, Azerbaijan e Nagorno Karabakh da oltre vent’anni e per far normalizzare le relazioni con la vicina Turchia per la riapertura del confine trai due paesi.
Oggi
Il 24 aprile è il giorno dedicato alla commemorazione delle vittime dei massacri del 1915 che l’Armenia e 28 paesi, compresa l’Italia, riconoscono come genocidio. Migliaia di persone oggi si recheranno al memoriale del genocidio, sulla collina di Tsitsernakaberd che sovrasta la capitale. Il monumento, inaugurato nel 1967, fu costruito dalle autorità sovietiche in seguito a una vasta protesta di piazza nel 50° anniversario dei massacri – il 24 aprile 1965. Migliaia di persone si radunarono sulla Piazza dell’Opera, oggi Piazza della Libertà, per chiedere che quegli eccidi fossero riconosciuti come genocidio.
La giornata che ricorda il Medz Yeghern - il grande crimine che, secondo gli armeni, portò alla morte di un milione e mezzo di persone - assume inevitabilmente un valore particolare oggi. Il genocidio rappresenta il cuore dell’identità armena, nel paese ma soprattutto per la numerosa e potente diaspora che ha fortemente sostenuto il movimento di questi giorni grazie a un incessante tam-tam sui social networks.
Oggi, tra le autorità che hanno reso omaggio al memoriale , guidate dal neo presidente Armen Sarkissian, mancava il premier dimissionario.
E domani?
Svuotata la piazza, sfumata l’euforia e trascorsa la giornata della memoria, manifestanti, politici e osservatori si interrogano sul dopo. La piazza ha vinto sì una battaglia durissima, ma non la guerra – quella contro gli inamovibili ranghi degli oligarchi che dominano il paese da oltre due decenni e che sono saldamente ancorati al potere politico in Armenia. Se da un lato Sargsyan personificava questo potere, dall’altro la sua dipartita non è sufficiente a scardinarne il dominio.
Le dimissioni hanno accolto solo una delle due richieste della folla, elencate da Pashinyan, la seconda era il potere decisionale al popolo.
“Nuove elezioni sono ora cruciali, soprattutto per riflettere la nuova realtà politica armena”, continua Giragosian. “E nonostante la lettura errata del governo armeno sull'intensità del dissenso e le tattiche dei manifestanti, è necessaria una sobria riconfigurazione della condivisione del potere. Questo consenso, e compromesso, sembra però lontano: aspettative e rabbia sono ora pericolosamente alte, la vera sfida di governance è solo all'inizio”.
Rimangono due incognite: la Russia e l’Azerbaijan. Gli sviluppi degli ultimi giorni non hanno avuto, e non sono destinati ad avere, una valenza geopolitica e non hanno nulla a che vedere con la Russia o con l’Europa: “Dissenso e malcontento sono legati alle dinamiche politiche ed economiche armene”, dice Giragosian.
A differenza di manifestazioni del passato, Mosca si è limitata a un semplice tweet di Maria Zacharova, portavoce del ministero degli Esteri, che diceva “Armenia, la Russia è sempre con te.”
Baku dal canto suo ha seguito gli sviluppi con commenti che sostenevano la lotta di piazza e che sono stati rigettati e derisi dagli stessi armeni, alla luce del trattamento riservato ai critici del potere nel vicino Azerbaijan. Il timore è che il presidente Ilham Aliyev decida di sfruttare il momento di disorientamento interno dell’Armenia per attaccare il Nagorno Karabakh, come successe nell’aprile del 2016. Allora, quattro giorni di scontro aperto provocarono la morte di centinaia di persone e migliaia di sfollati.
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